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La mela dolceavvelenata della poesia nelle mille voci di Federica Fracassi

Creato il 14 ottobre 2011 da Fabry2010

Pubblicato da mariagraziacalandrone su ottobre 14, 2011

La mela dolceavvelenata della poesia nelle mille voci di Federica Fracassi

Metti una donna al centro della scena. Mettila seduta su una carrozzella. Metti che la scena sia semibuia e che la donna sia in declino evidente. Lo spettatore entra e si suppone che pensi “Speriamo che finisca presto”. Lo spettacolo, crede di intendere. Ma forse no. Forse noi siamo messi nella condizione esatta dei visitatori della corsia degli incurabili. E da subito abbiamo da provare il disagio e l’imbarazzo del quale dirà più avanti Federica Fracassi dicendo le parole di Patrizia Valduga. Metti che presto quel corpo pur rimanendo immobile cominci a slittare attraverso tutti i possibili stati dell’anima e della voce. Metti che noi capiamo che gli incurabili sono creature vive, che hanno ancora confidenza con noi, che hanno diritto a questa confidenza e non allo stato laterale nel quale vengono forzati. Metti che adesso ci vergogniamo. Il monologo ha già fatto il suo effetto morale. Metti che il testo tiri e sbalzi il corpo di una aderentissima Federica Fracassi dalla franca invettiva alla sanguinante levità dei mistici fino nella infinita negritudine degli astri, ai grovigli di stelle, fino alla parodia religiosa, rimanendo continua solamente la struggente dichiarazione d’amore per la lingua italiana e per la poesia, la fiducia (che vuole essere) cieca nella parola – sebbene Valduga se la prenda pure con Orfeo che, voltandosi, ha scelto di tenere intatta la sua ispirazione, certamente nutrita dalla disperazione della perdita di Euridice, anziché conservarsi la sua bella Euridice fragrante in sé. Metti che suoni e luci della regia dell’ottimo Walter Malosti abbiano l’intelligenza di accompagnare impeccabilmente ogni piccolo scarto emotivo e di suggerire aperture che non appaiono. Niente e nessuno esce mai dalla corsia. Tutto il mondo in un letto d’ospedale. Il mondo tra i soldati del dolore, a rendere fiammante – anzi, di cenere – la quotidiana manovalanza della carne che si disfa su un letto terminale. Dal quale ricordiamo tutto l’azzurro e l’oro e il tremolar della marina. Sul quale continuiamo a essere delusi dai giornali e dalla farsa volgare della contemporaneità. Sul quale moriamo, in un finale di rara onestà e dunque di rara bellezza. Con questo testo Valduga, a scarti improvvisi, smentisce la trasfigurazione lirica del mondo alla quale poco prima ci aveva fatto credere e ci getta addosso un gran freddo di carne e di metallo. E Federica Fracassi sta dentro la virata con l’agilità degli immobili. Che, poiché sono fermi, possono tutto. La danza immobile. Qui: un morire immobile e lento, ovvero la danza estrema. La immobilità estrema della danza. Da quel “letto” si alza solo voce. Voce in parolaccia e rima. Abbiamo trovato tanto vero e dolente il momento nel quale Valduga invoca dignità per i malati, come già Antonella Anedda in un volume sul medesimo tema ospedaliero (Residenze invernali) invocava che i malati avessero la forza di lasciar cadere da sé come un vestito lacero e superfluo il rancore verso i sani. Impariamo a soffrire e anche a morire con dignità, scriveva Anedda. La protesta di Valduga qui è sociale, la poetessa chiede una giustizia e una moralità nella esposizione della morte, che, ormai abusata, ne annulla ogni dolore e ogni intelligenza. Noi non siamo più accanto al dolore dei moribondi, bensì andiamo al loro capezzale per assistere da presso allo spettacolo della morte. Incuriositi dal veder morire. Non più amanti, soltanto intriganti e imbarazzati. Valduga invece muore al posto di un altro, poiché sappiamo con certezza che nel corpo Valduga non è morta. Muore in versi – e Fracassi in scena – al posto di un padre con il quale il legame è così forte che la protezione da parte di lui passa anche le porte della morte. E muore forse tanto quanto muore lui, se mette la sua voce nella bocca del padre per chiedere ai morti, loro sì fraterni, di aiutarlo a morire, per chiedere finalmente perdono. Questa è in fondo la fine che anche noi imploriamo dal principio. E che passa attraverso il perdono. Il perdono che si ha dimenticando. E anche la vendetta che dimenticando si ottiene. Ma di questa scena piena di un’attrice che si spende con tanta estroversione tra suoni e luci perfettamente vivi tutto verrà ricordato e perdonato, insieme.


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