BYE BYE BOIA
Riconoscete questo malo hombre? Si tratta dell’ex dittatore argentino Jorge Rafael Videla. La notizia della settimana è la sua (tardiva) morte. Più di ogni commento vale il titolo lapidario di una tv del suo Paese: “È deceduto Videla, responsabile genocidio”. Era l’ultimo rimasto in vita della giunta militare infame e assassina macchiatasi del golpe del 1976, e della immane tragedia dei desaparecidos. Ho detto “tardiva”, ma forse è stato meglio così: dal momento che l’Inferno non esiste, mi auguro che il suo inferno personale siano stati gli ultimi anni di vita, e il rimorso che non può non aver roso la sua misera anima imputridita e triste.
da QUATTRO SOLI A MOTORE, capitolo 2 (finale Olanda-Argentina allo stadio Monumental di Buenos Aires, 25 giugno 1978).
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Per centoventi minuti, quella sera di giugno dei miei undici anni, seguii per tutto il campo i riverberi di un sogno arancione destinato ad infrangersi. Infrangersi contro il muro di sorrisetti sconci e beffardi degli oligarchi della dittatura militare argentina, schierati a gongolare in maschera sotto i baffi pettinati in tribuna d’infamia, come tanti sinistri gioppini del Carnevale della morte.
I miei eroi, quella sera, furono tutti olandesi. E solo più avanti, nel tempo, se ne sarebbe sovrapposto uno argentino. Uno solo, ma di una grandezza rilucente che allora non potevo capire: il centravanti Mario Kempes dai lunghi capelli. Lui, proprio lui, che coi suoi gol era stato decisivo, rifiutò, solo lui, in mondovisione di stringere lo zampone al torturatore gioppino Videla.
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Fillol aveva parato tutto, tranne il pareggio di Nanninga. E quando non avrebbe potuto parare, l’aveva fatto per lui il palo alla sua destra, sul tiro ravvicinato che Rob Rensenbrink, di controbalzo, scoccò al novantesimo a colpo sicuro. Lo stesso palo che avrebbe poi invece fatto da sponda per la carambola del 2-1 di Kempes nei supplementari. Il palo destro della porta di destra: un palo fascista, un agente di Videla.
Mio Condottiero Sconfitto, mio immenso Rob Rensenbrink: poteva bastare, chissà, un’allacciatura di scarpino diversa o un taglio diverso dell’erba a governare il rimbalzo del pallone, e il tuo urlo del Gol, e il mio, non si sarebbe mozzato in gola, e la Coppa l’avrebbero alzata i miei eroi, Tu, e Johnny Rep e Arie Haan e Wim Rijsbergen e Rudy Krol. E invece, e invece…
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Al rientro, trovai il mio Videla domestico lì, nella semioscurità creata dall’unica lampada accesa, quella piccola della sala. Come fui a metà corridoio, vidi l’ombra di mio padre che aspettava qualcuno davanti alla porta del gabinetto, dietro l’arco che introduceva alla zona notte, la cintura dei pantaloni che gli spenzolava da una mano fino a lambire il pavimento con la fibbia. Il qualcuno che aspettava non era il gatto, e l’ombra della cintura che mi attendeva al varco si muoveva silenziosa avanti e indietro. Avanti e indietro. Ogni tanto la fibbia, nella sua oscillazione, incontrava la superficie di una piastrella e produceva un tintinnio strascicato. Il guaio era che attaccato all’ombra del padre c’era Il Padre, nel suo pigiama da aguzzino. Fregava niente, a lui, se c’erano stati i tempi supplementari. Avevo fatto tardi, e non avrei dovuto.
Un possibile Corradino incupito...
Perdonatemi se di questo collegamento fra il personaggio, la notizia e il mio testo ho parlato io, che ero l’ultimo a doverlo fare.
Ma se aspettavo che lo facesse qualche Emerito Professionista del giornalismo cul-turale italioso…