La donna che canta scritto e diretto dal canadese Denis Villeneuve, è una vicenda complessa, drammaturgicamente fantasiosa, che si scopre a poco a poco in un gioco di intrecci a mosaico pieni di flashback a incastro. Nawal Marwan donna di origine libanese vivente a Montreal, muore lasciando due figli adolescenti a districarsi con un bizzarro nodo testamentario; devono ritrovare il padre e il loro fratello, di cui ignoravano le esistenze e consegnargli delle lettere. Li aiuterà in questo il notaio Lean Lebelle, ultimo datore di lavoro di Nawal nonchè suo caro amico. E così, prima la figlia Jeanne e poi suo fratello Simon, partiranno per il Libano alla ricerca delle loro origini attraverso la resurrezione dell'iter materno. Il film è una spoglia lettura del colorito ignoto di una donna che ha molto sofferto e molto vissuto. Nei suoi trascorsi Libanesi il tragico rotocalco della costruzione di un identità nazionale, scoperta e costituitasi attraverso il sangue dei sui figli, dei propri padri e delle madri. Un Libano crudo e viscerale, intollerante e calorosamente accogliente, raccontato attraverso le vicende di un trentennio nel quale Nawal si vede portare via un figlio, farsi testimone dell'alfabetizzazione, divenire killer, madre ancora violentata e torturata, rinchiusa in una cella a cantare per non sentire le urla delle altre donne torturate a loro volta. Le immagini che ci propone Villeneuve a tratti scalpitano, come l'uccisione della bambina nel deserto o il cecchino ragazzo che uccide altri bambini. La violenza è trattata in maniera realistica e il film gravita sospeso in un deserto di attese e tensioni annunciate. Il viaggio sia interno che esterno ai protagonisti si fa ad ogni passo più arduo e doloroso, e la scoperta del passato una consapevolezza inattesa difficile da accettare. La storia è ciclica e si attende la quadratura del cerchio che puntualmente arriva nel finale. Niente di scontato sicuramente e l'intricato svolgersi degli eventi che richiede una costante concentrazione è un plus così come la presa di posizione neutra dell'accadere storico che regala un tocco (lasciatemi passare il termine) di immortalità alla vicenda attraverso la mitizzazione della martire Nawal; rimproveriamo forse al regista il crogiolarsi in una narrazione a tratti un po' prolissa e compiaciuta rispetto ai pochi picchi di asciutta spettacolarità che avrebbero giovato al ritmo a volte latente. Da vedere anche solo per conoscere la cronistoria di un mondo che va di moda diffidare.
voto: 6.5
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