La piel que habito, Spagna, 2011, 117 min.
Con La pelle che abito Almodovar sembra discostarsi dai suoi tipici melodrammi caratterizzati da complicati intrecci, personaggi sempre sopra le righe e situazioni paradossali, per portare lo spettatore in un intenso thriller psicologico (che però più carnale di così non potrebbe essere) con un soggetto decisamente forte. Il regista ha sempre avuto uno stile estremamente personale e riconoscibile, ma è innegabile come nelle ultime pellicole sia andato incontro ad un manierismo ripetitivo e piuttosto sterile. Per questo La pelle che abito costituisce una scommessa – e anche piuttosto rischiosa – per rilanciarsi e mettersi in gioco, cercando di far emergere la propria autorialità anche in un prodotto all’apparenza estraneo al suo percorso.
Robert (Antonio Banderas) è un metodico e ambizioso chirurgo plastico che ha concentrato tutte le sue ricerche su un solo progetto: l’invenzione di una pelle estremamente simile a quella umana ma sintetica, in grado di resistere a bruciature e punture di insetti. L’idea gli è venuta in seguito ad un evento tragico: la moglie era infatti rimasta completamente ustionata in un incidente automobilistico. La sua successiva morte, unita a quella della figlia per le conseguenze di un presunto stupro, hanno prodotto in lui un senso di vuoto e di vendetta acutissimi che si materializzano nella sperimentazione di questa nuova pelle su un soggetto umano scelto con attenzione e con il quale si instaurerà un ambiguo rapporto.
Il soggetto è di quelli rischiosi dove il pericolo del ridicolo involontario è sempre dietro l’angolo, ma Almodovar è bravo a scansarlo quasi sempre, fatta eccezione per qualche dialogo poco riuscito. Non rinuncia per altro al suo bestiario tipico e anzi lo rende credibile proprio in funzione di questa sceneggiatura particolare, come avviene per il personaggio di “El tigre”, clownesco uomo-leopardo e violento figliol prodigo. Il regista sceglie di narrare la storia in maniera non lineare dividendo fondamentalmente il film in tre tronconi che, si potrebbe dire, si identificano in tre generi diversi. La più coinvolgente ma allo stesso tempo la meno riuscita è quella finale, quando le tinte si incupiscono e i toni melodrammatici si fanno preponderanti. Tutta la porzione centrale invece è un lungo flashback che permette di capire la prima parte, durante la quale lo spettatore è colto da un efficace senso di spaesamento e disagio, rinchiuso come Vera in una gabbia dorata e in balia di ciò che sceglie di far vedere Almodovar.Banderas ritrova il regista che lo aveva lanciato a più di vent’anni di distanza dalla loro ultima collaborazione per Legami! interpretando forse uno dei suoi personaggi più complessi ed è bravo nel rendere la figura di questo medico sempre controllatissimo, ma con una scintilla di lucida follia nello sguardo. La sua interpretazione trattenuta viene però superata da quelle di Marisa Paredes e Elena Anaya, le due figure femminili a lui vicine. La prima interpreta Marilia, la madre/domestica di Robert, tipico personaggio del mondo almodovariano, sofferente e amorevole al tempo stesso. La seconda è la bellissima Vera, la co-protagonista, il risultato dell’esperimento del chirurgo. Lei ha il compito più difficile: interpretare due persone nello stesso corpo, dover dimenticare, cambiare e infine ritrovare la propria identità; un lavoro fatto di sguardi e sensualità, rabbia repressa e confusione che colpiranno lo spettatore con violenza e morbosità.
Non sono tanto le questioni dell’etica scientifica quelle che Almodovar vuole analizzare, (lasciate nel sotto-plot ad un personaggio secondario abbastanza inutile), quanto piuttosto quelle che da sempre caratterizzano la sua filmografia; i movimenti del cuore e dell’anima messi alla prova da situazioni straordinarie. Dunque il decantato cambio di registro di cui si parlava in apertura si risolve in una declinazione diversa della sua poetica. Il regista punta come sempre sulle emozioni forti, sembra voler essere spietato e cupo sin dall’inizio come alcune scene (tra le altre un tentativo di suicidio abbastanza cruento) sembrano confermarlo, ma quando c’è da scoprire le carte Almodovar non ha il coraggio di affondare il colpo e viene incontro allo spettatore con spiegazioni consolatorie e scelte fin troppo accondiscendenti che rovinano quanto di buono costruito fino ad allora. Non si può comunque negare al regista spagnolo una messa in scena azzeccata, forse ridondante ma in grado di appassionare nonostante la lunghezza della pellicola con una bella colonna sonora (di Alberto Iglesias), scenografie curate (grandi spazi ariosi che sembrano “soffocare” i personaggi) e un gusto nella composizione dell’inquadratura che è uno dei suoi pregi storici.EDA