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La politica estera di Jeb Bush: un insieme di banalità e incertezze

Creato il 21 febbraio 2015 da Pfg1971

La politica estera di Jeb Bush: un insieme di banalità e incertezze

La politica estera di Jeb Bush: un insieme di banalità e incertezze

Il 18 febbraio scorso, a Chicago, Jeb Bush ha pronunciato il suo primo discorso in materia di politica estera.

 

Da quando, a dicembre 2014, aveva dichiarato di aver intenzione di esplorare le possibilità di una sua, candidatura alla Casa Bianca, non aveva mai avuto modo di esprimere le sue posizioni su tale argomento.

 

Il  risultato? Non molto.

 

Come suo fratello George, che, in un discorso tenuto in South Carolina, nel settembre  del 1999, prese le distanze dalle scelte di Bill Clinton, anche lui ha voluto distinguersi da Barack Obama.

 

Tuttavia, mentre il fratello maggiore criticò l’ex governatore dell’Arkansas per aver agito troppo e male in ambito internazionale (da notare l’ironia del biasimo da parte di un presidente che coinvolgerà gli Usa in due guerre oltre mare), Jeb ha attaccato Obama per aver fatto poco e male.

 

Ha definito la sua politica estera come una “hashtag diplomacy”, una strategia fondata molto sulle parole e sugli annunci e poco sui fatti.

 

A sostegno di questa sua affermazione ha citato l’esempio della “red line” imposta alle azioni di Bashar Al Assad in Siria e poi non rispettata.

 

Oppure l’Iran e il suo programma nucleare.

 

In questo caso, per il giovane Bush, il Congresso dovrebbe rafforzare le sanzioni contro Teheran e Obama non dovrebbe minacciare un eventuale veto su tale decisione.

 

Per il resto, le parole di Jeb sono un insieme di banalità e si caratterizzano per una totale assenza di un disegno politico ben preciso.

 

Egli ha ripetuto posizioni tipiche del suo partito, come la necessità di aumentare le spese militari e il bilancio del Pentagono, ha criticato i negoziati avviati da Obama con la Cuba di Raul Castro (posizione comprensibile in un conservatore legato alla Florida, lo stato con maggiore concentrazione di esuli anticastristi) e infine ha esaltato la posizione americana nel mondo, un tocco di “eccezionalismo statunitense”, che non fa mai male.

 

Non ha quindi saputo, nè forse voluto indicare un indirizzo autonomo negli affari internazionali, viste le posizioni espresse in passato dai due precedenti presidenti appartenenti alla sua famiglia.

 

Due visioni del mondo del tutto diverse, realista e fondata sui rapporti di forza e gli equilibri di potenza quella del padre, George sr, mentre quella del fratello, George jr., si è distinta per l’azione e l’interventismo anche eccessivo sul palcoscenico internazionale.

 

Non deve essere stato facile per Jeb provare a individuare un corso d’azione che potesse mediare tra questi due estremi.

 

Non ha potuto esimersi dal sostenere che suo fratello aveva compiuto alcuni errori, ad esempio sulla vicenda delle armi di distruzione di massa in Iraq, tuttavia si è subito affrettato a lodare la scelta del “surge” del 2007, l’invio di un maggior numero di uomini per domare gli scontri tra sunniti e sciiti sul territorio iracheno.

 

La difficoltà di Jeb di apparire nuovo e differente dai suoi due ingombranti parenti ha avuto una rappresentazione evidente nella sua stessa oratoria.

 

E’ sembrato molto legnoso e in difficoltà.

 

Ha letto il testo del discorso senza enfasi, in modo automatico, dimostrando così di non credere nemmeno lui alle parole che diceva.

 

Ha avuto un sussulto di personalità solo quando ha evidenziato che le scelte di politica estera che avrebbe fatto sarebbero state sue e solo sue.

 

I am my own man on foreign policy”, si è affrettato a dire per prendere le distanze dai suoi familiari.

 

D’altra parte, Jeb non deve solo distinguersi dagli altri due Bush, ma deve assumere una posizione ben articolata sia nei confronti di un isolazionista come il senatore del Kentucky Rand Paul, sia verso altri potenziali avversari nelle primarie repubblicane, di stampo più interventista, come il governatore del Wisconsin Scott Walker o il senatore della Florida Marco Rubio.

 

Da ciò che ha sostenuto in passato, Jeb Bush appare come un conservatore moderato, sull’esempio di leader repubblicani degli anni ’50 o ’60, ma l’eccessivo spostamento a destra del suo partito non gli permette di esprimere con tranquillità le sue posizioni, favorevoli ad esempio ad una riforma dell’immigrazione, vero e proprio anatema per il suo attuale partito.

 

Del resto, lo stesso Jeb ha più volte sostenuto che per un conservatore come lui sarebbe più facile vincere le elezioni presidenziali generali piuttosto che le primarie del Gop.   

  

La politica estera di Jeb Bush: un insieme di banalità e incertezze

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