Autore: Daniele Duso
The mission, questo il titolo dell’ennesimo reality che dovrebbe andare in onda nel prossimo autunno sui canali della Rai. Dopo fratelloni, fattorie e isole, l’ultima “realystica” trovata degli autori tv pare sia quella di inviare dei vip all’interno di un campo profughi in giro per il mondo con l’intento di raccontare la vita quotidiana del rifugiato e di chi gli offre assistenza. Tra i nomi dei vip figurano quelli di Paola Barale, inviata in Congo, Al Bano Carrisi, spedito in Sudan, con la partecipazione straordinaria di Emanuele Filiberto di Savoia.
Il progetto sembrerebbe pure serio, con i personaggi famosi che, costretti a vivere fianco a fianco con gli operatori umanitari dell’Unhcr (l’Alto Commissario delle Nazioni unite per i Diritti umani), porteranno in televisione la dura realtà, e non un semplice gioco, stavolta, delle persone costrette ad abbandonare il proprio Paese d’origine a causa di guerre o persecuzioni politiche o religiose. Fatto sta che la cosa a qualcuno non è piaciuta, e da più parti in rete, nei giorni scorsi, si sono levate accuse di speculazione sul dolore o addirittura di pornografia.
Alle parole di condanna arrivate soprattutto da associazioni e organizzazioni non governative, si sono aggiunti poi due distinti appelli alla Rai per bloccare le riprese, con raccolta di adesioni/consensi attraverso i siti change.org e activism.org contro la “speculazione sul dolore” e per chiedere alla Rai una “informazione di qualità su questi temi”. Appelli che trovano inaccettabile il comportamento di Unhcr e Intersos, partner dell’iniziativa, che avrebbero, così facendo, rinnegato i valori di umanità ed etica professionale che dovrebbero caratterizzarle.
Eppure, una volta tanto, ci sentiamo di spendere una parola a favore della Rai. In un periodo storico nel quale coloro che dovrebbero raccontare, i giornalisti/reporter/inviati, sono sempre meno utilizzati dai grandi media (perché troppo costosi e perché adesso comunque i social, ne abbiamo parlato qui, arrivano prima e sono più diretti), una forma di racconto mediato, attraverso gli occhi di chi non è direttamente coinvolto, potrebbe anche non essere del tutto negativo.
Lasciamo stare i nomi dei “prescelti”, qui si parla solo di quello che potrebbe essere il prodotto finale: un docu-reality sulla falsariga di Mondo Cane (crudo capolavoro di Elio Petri) o uno pseudo-reportage dall’interno. Ripeto: lasciamo perdere la voce che racconterà queste storie, che non è detto sia, aprioristicamente, meno lucida e sensibile di quella di un giornalista di professione. Comunque sia, vivere per giorni con certe immagini davanti agli occhi porta a interiorizzare qualcosa, a comprendere, e ad avere qualcosa da raccontare.
Di certo c’è che cambierà lo scenario del reality: almeno sulla carta dovrebbe essere meno plastificato, meno finto, di quelli proposti finora. Cambieranno gli obiettivi: niente giochetti di abilità o insulse gare di sopravvivenza. Cambieranno le inquadrature, che da ginecologiche si dovranno fare antropologiche. Cambierà, qui mettiamo un probabilmente, ciò che proverà nell’animo lo spettatore, vista l’oggettiva difficoltà di spettacolizzare uno scenario del genere. Il timore, che probabilmente condivido con gli autori, è che possa cambiare anche il gradimento del pubblico di fronte all’aspro e al crudo, dopo anni di educazione al godereccio zuccherino. Non dovesse essere così, sarebbe davvero una bella sorpresa e magari potremmo dire che la Rai ha svolto davvero un servizio pubblico.
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