Avevo scritto pochi giorni fa che fino al prossimo decluttering non mi sarei occupata di minimalismo. E’ evidente che i miei principi sono poco saldi. Rieccomi di nuovo a ragionare sul tema: anche questa volta non si tratta di oggetti ma di parole.
Prima di iniziare l’argomento di questo post, lasciatemi gongolare per qualche riga per i premi che minimo blog ha assegnato ai partecipanti del decluttering settembrino. Devo andare a pavoneggiarmi con mio padre, che ancora non si è rassegnato all’insolito ordine che regna in garage, nonostante la commozione nel rivedere le pareti. Se l’autrice del blog sapesse quanta strada ho da fare prima di aver domato la miriade di oggetti che mi circondano, probabilmente mi leverebbe il titolo. Facciamo finta di niente e proseguiamo.
Ieri, tra i cumuli di carta che mi ritrovo in casa, per esempio, ho ripescato un articolo di Alberoni, del 30 aprile 1990, pubblicato nella sua rubrica Pubblico&Privato, dal titolo: “Se leggere è bello, più bello è leggere e non capire”. Inizia così:
“Ci sono due modi di scrivere. Uno limpido, chiaro, preciso, che tutti capiscono e uno oscuro, complicato, difficile, spesso sovrabbondante. Il primo si ottiene pensando e ripensando, scrivendo e riscrivendo. Il secondo buttando giù, lasciandosi andare, facendo giochi di parole, mescolando i concetti e ripetendoli. Il primo è una strada, il secondo una rete di viottoli che conducono in tutte le direzioni. Eppure la gente, anche le persone colte, anche gli intellettuali, spesso preferiscono il secondo tipo di scrittura.”
Nel prosieguo dell’articolo Alberoni sostiene la tesi con quattro argomentazioni:
- gli scritti oscuri danno alle persone l’impressione di trovarsi davanti ad opere o molto specialistiche o molto creative;
- dalle epoche più antiche, passando per il medioevo, fino a giungere all’epoca moderna il linguaggio per iniziati – oracoli, libri sapienziali, latino ecclesiastico, gergo filosofico, sociologico, psicanalitico – hanno sempre creato una distanza che la gente comune ammirava, rispettava e non colmava, perché non ne capiva i presupposti;
- il difficile e contorto si preferisce perché, chi legge, lascia fluttuare il pensiero in una nebbiolina indistinta, afferrando qua e là un’idea. Costui cerca impressioni, non concetti distinti, per rivivere una parodia del pensiero creativo, una sua modesta imitazione, fornendo così l’impressione di essere intelligenti, profondi, talvolta abissali;
- nel linguaggio sfuggente risuona l’eco della lingua sacra, incomprensibile agli umani, il borbottio indistinto della Pizia che rivela il segreto agli dei e soddisfa il bisogno di misticismo.
Alberoni conclude asserendo che la soddisfazione di questi quattro bisogni forti è terreno fertile per chi, barando, è disposto a manipolarli e soddisfarli.
Non condivido del tutto le quattro motivazioni che l’autore chiama in causa per esplicitare la sua premessa che, invece, mi trova pienamente d’accordo. Anzi, secondo me, avrebbe dovuto insistere per sottolineare la difficoltà del primo tipo di scrittura. Vale per qualunque cosa: chiamiamo genio ciò che, visto fare ad altri, risulta facilissimo, mentre probabilmente nasce da anni di pratica; quando ci cimentiamo noi nella stessa azione, ci cadono le clavette sulla testa.
Spesso leggo articoli o libri, che trattano di argomenti non semplici, scritti con una tale levità che mi conducono per mano fino alla fine in una piacevolissima passeggiata. Mi fermo a rileggerne parti che spiegano in poche chiarissime parole un complicato concetto, che disegnano, in brevi e scarne frasi, immagini vivissime, che rassicurano e spalancano le porte della conoscenza e sembra che dicano: “vieni, c’è posto per tutti, non avere timore”. Ogni parola in questi testi è necessaria, nessuna è sovrabbondante. Sono sicura che gli autori avevano, in primo luogo, ben chiaro in testa quanto volessero dire e che, altrettanto importante, desiderassero trovare un modo facile per poterlo trasmettere, scrivendo, riscrivendo e, soprattutto, cancellando, in un faticoso lavoro di revisioni.
Tanta è la mia ammirazione per questa modalità di comunicazione, quanta la fatica che spesso mi ritrovo a fare alle prese con un testo astruso. Sia tra i testi universitari, sia sui quotidiani, sia tra i libri da cui devo passare per esigenze lavorative, sia tra i blog mi capita di dover leggere una pagina tre volte per capirne il senso. Per venirne a capo di solito prendo un evidenziatore e sottolineo i concetti: nella maggior parte dei casi bastano due o tre parole per pagina per inquadrare l’argomento e trovare la via d’uscita. In altre non trovo niente da sottolineare. Ma allora, non si potrebbe fare a meno della rutilante “fuffa”? C’è veramente bisogno di arzigogolare? Vale la stessa considerazione per la comunicazione verbale: ci sono oratori che si esprimono con un linguaggio di uso comune e in quattro ore ti schiudono le porte, che so, dell’astrusa arte del calcolo dei costi aziendali, ce ne sono altri che, dopo un semestre universitario, si ritrovano con alunni di discreta intelligenza che non hanno afferrato le idee basilari.
Un amico ha dedotto dalle proprie osservazioni della specie umana che, chi ha frequentato il liceo classico, padroneggia più degli altri questa dote di inventare nuvolette di nulla che accompagnano e circondano i pensieri. Ho la coda di paglia e penso sempre si riferisca a me, poi mi ricordo che ha una figlia e sono sicura che parla solo per esperienza famigliare! Però quando sento questa frase non posso fare a meno di riandare con il pensiero alla mia esperienza e di chiedermi quanto il fumo delle parole, spesso, abbia nascosto il magro taglio dell’arrosto o, in casi peggiori, subliminali manipolazioni.
Concludo, quindi, con un lessico di impatto immediato: è proprio necessario scatenare i mal di testa nel lettore o spesso se la stanno solo tirando? Per parlare di me, argomento che mi appassiona: fossi stata in grado di scrivere questo post in metà dello spazio, esprimendo gli stessi concetti, sarei molto fiera di me stessa.
E voi, tanti dei quali autori di blog, che ne pensate?