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È estate sulla scrivania della mia vecchia stanza.
I miei dormono di là, e Giada, la gatta, russa sul letto. Copie di Zagreb stanno nell’angolo, in una busta che contiene anche segnalibri e altro “materiale di scena”.
Domani ripartirò per Berlino, mentre ripenso a questi giorni italiani e alle due presentazioni di Zagreb: l’entusiasmo di raccontare di me e del mio romanzo, il timore che la sala non si riempia, la felicità di incontrare i lettori…
A Roma eravamo in una stanzetta sotto una libreria. Scale, e dalla libreria sei giù, con delle colonne tra un palchetto e un bar. Su un tavolino le copie di Zagreb, su un altro i bicchieri, il mio e quello del relatore, a due passi l’attore che, bravissimo, legge. Rilassati, ridiamo, parliamo ed è finita: siamo già in giro per Roma, un manipolo di ragazzi a stemperare il calore con un bicchiere di vino bianco.
A Napoli eravamo a piazza Plebiscito, una libreria seriosa, autoritaria perfino. Si riempie di gente che sembra venir fuori da un film di Fellini: la donna pittrice con le labbra gonfiate; l’uomo senza un occhio; il professore di filosofia; l’attore che nessun teatro ospita da anni; e la donna “slava”.
Continua surreale la presentazione, surreale come solo a Napoli poteva essere, e si conclude in stile.
Stiamo ancora raccontando del romanzo, delle parole, delle storie, quando, interrompendoci, la “slava” dalla prima fila si alza e si avvicina, rompendo la barriera, entrando in contatto. Mi guarda, la “slava” e mi dice: “Io vengo da Jugoslavia, volevo conoscere mio compaesano”.
Le stringo la mano, e le sorrido. Conclusione perfetta.
Ora, nel buio estivo italiano, ripenso a queste prime presentazioni. Ho capito due cose. La prima: in questi mesi ne vedrò delle belle. La seconda: leggere i libri è molto meglio che parlarne.
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