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La storia del bambino che non passò per il camino

Creato il 30 novembre 2013 da Astorbresciani
La storia del bambino che non passò per il camino Il decimo e ultimo racconto de Il cantico del pesce persico è, con ogni probabilità, il più commovente. Si intitola Il tesoro di Giacobbe Levi ed è ambientato nell’anno 2010, per quanto ripercorra una vicenda che ha avuto inizio nel 1944. Ne sono protagonisti un bambino ebreo deportato ad Auschwitz insieme con la sua famiglia e un commercialista comasco che riporta alla luce una “scatola del tesoro” sepolta nel giardino della sua nuova casa. Da quel momento, il commercialista è come colto da una strana febbre che fa nascere in lui il desiderio di scoprire la sorte del bambino. Andrà alla ricerca di ogni traccia che possa condurlo a lui e affronterà una moderna Odissea prima di scoprire che… Sarebbe quanto meno indelicato svelare il finale. Come tutte le storie che emozionano, anche quella di Giacobbe Levi è per il lettore una sorta di viaggio interiore, una riscoperta dei buoni sentimenti e dei valori. Nonostante non sia una delle tante storie sulla Shoah scritte da testimoni diretti, ma una rivisitazione contemporanea, non manca di ricordarci l’attualità delle parole di Primo Levi: “Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario”. Ma ecco l’incipit…
Mentre la pala meccanica iniziò a scavare nel giardino di Villa dei Tigli, Adrian Popescu, l’operaio rumeno che manovrava la benna con destrezza sopraffina, come fosse la bacchetta di un direttore d’orchestra, anzi, di più, un’appendice del suo corpo, mai avrebbe pensato di riportare alla luce una cassa del tesoro. In realtà non era un vero forziere, come quelli che i pirati seppellivano nelle isole dei Caraibi, ma una scatola di latta di medie dimensioni che portava i segni dello scorrere del tempo. Adrian riuscì a recuperarla senza rovinarla e la consegnò al capocantiere, il Pino, che fu incuriosito dall’oggetto e lo ripulì alla bell’e meglio. Sebbene l’umidità avesse danneggiato l’immagine litografata sulla latta, il Pino seppe distinguere il disegno di un elegante unicorno e la scritta Wamar. Pur tuttavia non fu in grado di riconoscere la natura e l’età della scatola. A dire il vero, quante persone al mondo avrebbero riconosciuto una scatola che il Biscottificio Wamar di Torino aveva messo in commercio negli anni ’30 del XX secolo e tanto più potevano sapere che l’unicorno era stato disegnato da Leonetto Cappiello, uno dei più grandi illustratori della prima metà del Novecento?La scatola era sigillata ermeticamente e il capocantiere fu tentato di aprirla. L’avrebbe certamente fatto, perché la curiosità è un prurito difficile da curare, se non fosse che proprio in quel momento sopraggiunse Giovanni Molteni, il committente dei lavori edili e nuovo proprietario di Villa dei Tigli, che si impadronì della scatola e anziché aprirla davanti a tutti, la ripose con finta noncuranza nel bagagliaio della sua automobile. «Su, tornate al lavoro!» ordinò con un tono che non ammetteva repliche. Non fu per egoismo che agì in questa maniera antipatica ma per una sorta di felice intuizione. Ebbe come sentore che la scatola custodisse un segreto, più che un tesoro, e che svelarlo pubblicamente avrebbe significato dissacrare un rituale che era stato certamente compiuto con affidamento e riservatezza. Era, infatti, plausibile che chi aveva seppellito la scatola intendesse nascondere qualcosa o, forse, proiettare qualcosa di sé nel futuro. Il ritrovamento non rendeva necessariamente partecipi di una rivelazione chi lavorava alla ristrutturazione di Villa dei Tigli. Era una faccenda privata, che riguardava solo l’attuale proprietario dell’antica casa di villeggiatura e dei suoi annessi e connessi. Compresi i suoi segreti.La curiosità è una delle forme del coraggio femminile, sosteneva Victor Hugo. Martina, la moglie di Giovanni, era una donna curiosa e insieme coraggiosa e non perse tempo quando suo marito arrivò a casa con la misteriosa scatola ritrovata nel sottosuolo del giardino della casa in cui contavano di trasferirsi di lì a qualche mese. Non che servisse del coraggio per aprirla, sia chiaro, ma l’eccitazione che la colse fu tale da rendere prioritaria e affannata l’incombenza. Che cosa conteneva la misteriosa scatola di latta?  Quando era stata sepolta? E perché?Martina e Giovanni si scoprirono trepidanti mentre la loro mente elaborava ipotesi fantasiose. Quando l’avventura bussa alla nostra porta, di solito ci precipitiamo sull’uscio. In questo caso si prefigurava di modeste dimensioni, eppure provarono emozioni della stessa natura di quelle che dovette avvertire l’archeologo Howard Carter il giorno in cui scoprì la tomba del faraone Tutankhamon e maggiormente nell’istante in cui violava il suo sarcofago.La scatola fu aperta senza riserve. Conteneva diversi oggetti in buono stato di conservazione: alcune biglie di vetro raccolte in un sacchetto di tela color senape, una ventina di soldatini di piombo, un modellino di locomotore a vapore della Hornby-Railways, una Citroen di latta, un coltellino svizzero multiuso, un mazzetto di figurine di carta, una piccola trottola, alcuni album di fumetti – fra cui il Vittorioso, l’Intrepido e Audace – dieci vecchie fotografie in bianco e nero, una croce di Davide in argento e smalto, una menorah lignea, una Torah tascabile e una busta chiusa.La scoperta deluse Martina ma non Giovanni, che maturò una certezza. Gli oggetti contenuti nella scatola erano appartenuti a un bambino ebreo vissuto negli anni della seconda guerra mondiale, come rivelavano le date di pubblicazione dei fumetti e i personaggi delle figurine, fra cui il Feroce Saladino. Anche le fotografie in bianco e nero suggerivano un periodo storico preciso. La disanima del tesoro accreditò l’ipotesi che il padrone dei beni avesse voluto nasconderli. Perché? Fu questa la prima domanda che Giovanni si fece. Altre domande che premevano nella sua mente furono messe da parte e prevaricate dall’azione. La busta poteva contenere utili informazioni non solo sulle ragioni dell’occultamento del tesoro infantile ma anche sull’identità del possessore del tesoro stesso. Per questa ragione fu letta con emozione crescente. (continua)

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