Maurizio Azzolini aveva 18 anni il 14 maggio 1977, frequentava l’istituto tecnico Cattaneo, in piazza Vetra, a Milano. È in una foto, in quella foto: impugna una pistola, spara. Vicino a lui due compagni di scuola, Walter Grecchi e Massimo Sandrini, che non erano armati. Non colpì nessuno, Azzolini. Però c’era, però aveva la pistola. Qualcuno morì quel giorno a Milano, in via De Amicis: l’agente Antonio Custrà venne raggiunto da un proiettile calibro 7,65 che perforò la visiera del casco e lo colpì in faccia. Sua moglie era incinta, avrebbe avuto una bambina meno di un mese dopo, si chiama Antonia. OggiLibero fa il titolo a tutta pagina su Azzolini. Dice: “Un terrorista a palazzo”. Perché Maurizio Azzolini oggi lavora in Comune, a Milano, è capo di gabinetto del vicesindaco Maria Grazia Guida. Ci lavorava anche prima, anche con la giunta di centrodestra. Per dire, il vicesindaco De Corato sapeva benissimo chi era Azzolini. È stato però il Corriere della sera a tirare fuori la storia, dopo che qualche giorno fa Azzolini, mentre camminava con il vicesindaco e un’altra persona, è stato investito e ferito da un portone che, in via Agnello, si è staccato dai cardini.
Un libro, uscito quest’estate, ricorda quello che accadde il 14 maggio 1977 in via De Amicis, a Milano. Si intitola “Storia di una foto”, è pubblicato da Derive Approdi. In copertina una delle fotografie più famose nella storia degli ultimi 50 anni italiani: una figura coperta da un passamontagna scuro che si piega sulle gambe, punta la pistola, spara. Sullo sfondo ci sono altre figure: altri passamontagna, altre pistole, fotografi che si riparano dietro gli alberi. È la foto simbolo del 1977. Il libro è la storia di tante foto, di una serie di momenti terribili: due minuti soltanto, dalle 15.37 alle 15.39 del 14 maggio 1977. Un ragazzo muore, altri diventano assassini.
Quei giorni del 1977 furono violenti e cupi. Il 12 maggio, a Roma, durante una manifestazione indetta dai radicali per ricordare la vittoria del referendum sul divorzio, era stata uccisa Giorgiana Masi. C’è una foto che ricorda bene anche quel giorno: è quella di un poliziotto in borghese, un maglione chiaro con una striscia rossa, la pistola in pugno.
La sera del 13 maggio a Milano ci fu una riunione dei rappresentanti di quello che venne poi definito il movimento del ’77. Si parlava di organizzare un corteo per l’uccisione di Giorgiana Masi e che protestasse contro l’arresto di due avvocati di Soccorso Rosso, Nanni Cappelli e Sergio Spazzali. Ci furono contrasti, questo racconta “Storia di una foto”: perché era nell’aria quello che poi sarebbe accaduto. La maggioranza decise per un corteo che avrebbe dovuto essere assolutamente pacifico. Alcuni non erano d’accordo. Erano soprattutto quelli del collettivo autonomo Romana Vittoria, quello in cui militava Marco Barbone. Il 12 marzo furono alla guida dell’assalto alla sede dell’Assolombarda, in via Pantano: i magistrati accertarono contro il palazzo degli industriali furono sparati colpi da 300 armi diverse.
Esiste la trascrizione di una registrazione radiofonica che venne fatta nel pomeriggio del 14 maggio. Il corteo arriva da via Olona, gira verso via Carducci. C’è un urlo: «Romana fuori». Una quarantina in tutto, non di più, escono dal corteo, corrono in via De Amicis, tra di loro ci sono anche i ragazzini. Ci sono Azzolini, Grecchi, Sandrini. La polizia è all’incrocio con via Ausonio. Saltano fuori le pistole, sparano in tanti. Quello nella foto più famosa è Giuseppe Memeo, lo chiamavano “terrone” per il fortissimo accento meridionale. Nel 1979 entrerà nei Pac, i proletari armati per il comunismo, quelli di Cesare Battisti. Memeo parteciperà all’assassinio del gioielliere Torregiani. Dal Brasile Battisti, due anni fa, ha scritto una lettera ai giornalisti scaricando tutte le colpe di quell’omicidio proprio su Memeo e su altri. Memeo rispose: «Per quei fatti ho pagato, non ho barattato la mia libertà con quella di altri».
Spararono Mario Ferrandi detto “coniglio”, Enrico Pasini Gatti, Giancarlo De Silvestri, Luca Colombo, Marco Barbone. In una sequenza di immagini, Memeo corre verso la fotografa Paola Saracini, le punta la pistola alla testa, la fa inginocchiare e si fa consegnare il rullino. Ma altri stanno fotografando, nascosti dietro gli alberi. Un manifestante spara contro un fotografo, il proiettile si conficca nel muro. Ci furono feriti: Maurizio Golinelli, un passante, venne colpito a un occhio. Patrizia Roveri, anche lei passava di lì per caso, venne ferita da un pallino di fucile. Due agenti sono feriti, un altro, Antonio Custrà, è a terra, morirà 24 ore dopo. Armi e proiettili erano arrivate il giorno prima dal gruppo terrorista di Corrado Alunni: 200 proiettili, acquistati regolarmente in un’armeria da un insospettabile.
Grecchi, Sandrini e Azzolini vennero individuati dalle fotografie e arrestati qualche mese dopo mentre erano in classe, durante una lezione. Il giudice Guido Salvini stabilì, anni dopo, che a sparare il colpo di 7,65 che uccise Custrà fu Mario Ferrandi. È sua la voce che nella registrazione audio urla “Romana fuori”. Lui e Barbone erano incaricati di dare l’ordine dell’assalto. La figlia di Custrà, Antonia, due anni fa ha voluto incontrare Ferrandi, sono andati insieme in via De Amicis proprio all’incrocio con via Ausonio, sotto la targa che ricorda la morte di suo padre. Quel giorno Ferrandi ha raccontato tutto ad Antonia Custrà, l’ha fatto senza reticenze, davanti a un giornalista: «La verità giudiziaria dice che fui io a uccidere tuo papà. Non lo vidi cadere, non vidi nulla. Mi assumo tutta la responsabilità di ciò che accadde quel giorno». Lei disse: «Sono qui per mettere una lapide sul mio passato, per fare il funerale a mio papà».
C’è una fotografia ripresa pochi minuti dopo la sparatoria in via Carducci. Scappando, i manifestanti hanno dato fuoco al Pantea, una discoteca allora piuttosto famosa. C’è un ragazzo, con un berrettino in testa, che cammina tranquillo. È Marco Barbone, spiega la didascalia. Se ne va lungo via Carducci con calma. Nella mano destra ha un fucile con il manico segato. Barbone compare anche in altre fotografie, sul lato sinistro di via De Amicis.
Due anni dopo Barbone fondò a Milano la Brigata XXVIII marzo: con Paolo Morandini, Daniele Laus, Manfredi De Stefano, Francesco Giordano e Luigi Marano, il 28 maggio 1980, uccise Walter Tobagi. La storia è nota: Barbone fu arrestato nell’ottobre del 1980, si pentì e collaborò con i magistrati. Venne condannato a otto anni e sei mesi ma in base alla legge sui pentiti venne scarcerato. Oggi lavora per la Compagnia delle Opere, legata a Comunione e Liberazione. Marco Ferrandi ha pagato il suo debito con la giustizia, ha lavorato a lungo nella comunità Exodus di don Mazzi. Molti furono arrestati, alcuni scapparono in Francia. Azzolini ha pagato, poi, non so quando, è stato assunto dal Comune di Milano. Sono passati 35 anni, la storia di un giorno maledetto a Milano torna in prima pagina. Quegli anni, che conosciamo come “anni di piombo”, restano sempre sospesi lì, in attesa che qualche rivolo di storia giunga fino a noi e si riapra, tra polemiche e urla.