Il corporativismo è il tentativo di risolvere la ‘questione sociale’ (scontro tra proletariato e capitale) attraverso il sistema corporativo1: lavoratori e imprese uniti in molteplici corporazioni che ne difendeno gli interessi comuni in un contesto normato e sanitizzato dai conflitti. Lo Stato corporativo è perciò quella entità sovrana (e sovrastrutturale) dotata di un potere coercitivo e autoritativo che non è direttamente coinvolto nei processi economici produttivi e nelle attività proprie delle corporazioni. È un potere super partes e il suo unico compito è disciplinare le anzidette attività e loro dinamiche nel tessuto sociale; diversamente, esso diventerebbe espressione della classe sociale e politica dominante (borghese od operaia).
L’obiettivo teorico del corporativismo puro è perciò scongiurare la costante lotta di classe presente nel sistema liberale che viene alimentata dal mercato libero e dall’incontro della domanda e dell’offerta (che genera i profitti e dunque la dominanza della classe borghese, proprietaria dei capitali), e nel contempo evitare la rivoluzione della classe operaia e il tentativo di instaurare la dittatura del proletariato attraverso la statalizzazione e la collettivizzazione dei processi produttivi e della proprietà privata.
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Dire che il sistema corporativo è un ibrido tra il sistema liberale e socialista è comunque errato. Seppure si parli di terza via rispetto al sistema liberale e socialista, è chiaro che non può essere considerato un miscuglio tra i due sistemi. Il sistema corporativo annulla lo scontro di classe e nel contempo mantiene viva l’iniziativa economica privata, attraverso un sistema normativo positivizzato che ne disciplina nel dettaglio i processi.
Ciononostante, come tutte le teorie politiche basate su un’idea rigida di controllo sociale, è difficilmente applicabile nella pratica per la presenza dell’ineludibile fattore antropologico. L’esito pratico lo conosciamo nel regime fascista instaurato da Mussolini nel 1921 e al quale il corporativismo è indissolubilmente legato, seppure quella del PNF non sia stato l’unica elaborazione corporativa e seppure le leggi corporative vennero promulgate molto tempo dopo la salita al potere di Mussolini. Il motivo del fallimento del sistema corporativo nell’esperienza fascista è collegato soprattutto alla degenerazione dell’ideale fascista in un regime autoritario e repressivo in cui lo Stato, regolatore assoluto delle dinamiche sociali ed economiche, diventa Stato Etico in senso hegeliano, e cioè — detto con Giovanni Gentile — stato educatore e produttore di valori etici2.
Chiaramente, in un simile contesto, lo Stato corporativo diviene il soffocatore della vita socio-economica. Il suo ruolo regolatore lascia il passo a un’attività di repressione delle dinamiche sociali in funzione etica. Lo Stato fascista e corporativo (e non già Stato fascista-corporativo) assume su di sé l’ignominia del tiranno e padrone della collettività, non ammettendo le libertà fondamentali degli individui. Non a caso, l’ideale corporativo fu presto tradito dal concetto di partito unico trasfuso nel monopolio politico del Partito Fascista. Come era accaduto nello Stato comunista instaurato da Lenin e inasprito da Stalin (la struttura politica e monolitica del socialismo reale, degenerazione del socialismo ideale, è sovente, e a ragione, accostato alla degenerazione dell’ideale fascista o al regime fascista), anche nello Stato fascista si fa strada l’idea che il sistema corporativo potrà e dovrà essere parte della cultura e del pensare italiano tramite l’imposizione come unico sistema ammesso e legittimo.
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Il che mi fa porre il quesito sul rapporto tra democrazia delegata (o liberale) e corporativismo, sul quale la risposta è assai chiara: è un rapporto piuttosto complicato. Di più, pare essere impossibile riunire in un unico concetto politico-teorico due sistemi radicalmente differenti (non ci è riuscito Gentile). In ogni caso, se il corporativismo impone la non competizione tra le classi e la repressione dello scontro sociale (il divieto di scioperi e serrate)3, la democrazia comporta invece il concetto di competizione come conseguenza fisiologica dello scontro sociale, con il risultato che il meccanismo rappresentativo implica già di per sé il fallimento dell’esperimento corporativista che invero non ammette rapporti organici tra le classi corporative (lavoro e capitale) e governo statale. Ciò suggerisce che se si intende valutare (almeno in via ipotetica) un approccio corporativo nella organizzazione statale, è necessario inevitabilmente discostarsi dalla teorica liberal-democratica, per ammettere forme di Stato prive di un meccanismo di rappresentazione dal basso.
- Termine mutuato dall’organizzazione dei Mestieri e le Corporazioni di epoca medievale. ↩
- Secondo la dottrina di Hegel, lo Stato è fonte di libertà e norma etica per i cittadini. Lo Stato non può essere oggetto di valutazione morale da parte del singolo, perché è lo Stato che stabilisce ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. ↩
- Prevista anche nella teoria socialista-marxista, ma come conseguenza dell’annientamento della classe borghese e la collettivizzazione dei mezzi di produzione. ↩