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Se qualcuno avesse avuto dei dubbi riguardanti l'opportunità dell'uso del termine ”casta” anche per i giornalisti, la vicenda Sallusti li ha sicuramente fugati. Una levata di scudi pressoché unanime, immediata, dai toni spesso drammatici, si è eretta a protezione del membro. ”Si può finire in carcere per un reato di opinione?” - questa era la domanda. E poco importava se la possibilità fosse, almeno nel caso di Sallusti, squisitamente teorica; era del principio che si discuteva.Lo stesso Travaglio, pur ribadendo la sua disistima per il collega, scriveva: "I giornalisti sono cittadini come gli altri e non c’è nulla di strano se, in caso di condanna, la scontano. Vero: ma questo dovrebbe valere per delitti dolosi. Cioè per reati gravi e intenzionali. Sallusti è stato condannato per aver diffamato su “Libero” un giudice tutelare di Torino, Giuseppe Cocilovo, in un articolo del 2007 scritto da un altro sotto pseudonimo, ma di cui gli è stato attribuito l’“omesso controllo” in veste di direttore responsabile".Ma diffamare qualcuno non può essere fatto in maniera grave e anche intenzionale?E non è principio elementare che un direttore che consenta l'anonimato di un autore si debba assumere la responsabilità dell'articolo?Ci sembra che, per una volta, il giornalista de ”Il Fatto” abbia abbandonato la strada del buon senso per argomentare a favore di una causa persa.E veniamo all'articolo in questione, che neppure i più accesi difensori del direttore de ”Il giornale” hanno sostenuto essere scevro da colpe. Il pezzo è sfacciatamente diffamatorio, rivolto a chi (un giudice) non ha problemi di competenze nel formalizzare una querela, scritto da un ex giornalista radiato dall'ordine, e firmato Dreyfus (vi ricorda nulla?); il dubbio che l'evento sia stato prodotto con dolo è quantomeno legittimo.Mi parę altrettanto innegabile la volontà postuma di farne un casus belli. Afferma lo stesso querelante: ”In sei anni Libero o un suo direttore non ha mai pubblicato una smentita” - e ancora - ”potevano dare 20mila euro a Save the Children; bastava solo questo...”. Ma Sallusti non l'ha fatto. Ha preferito continuare le esternazioni contro la magistratura, protetto dai media che titolavano spudoratamente riguardo la possibile futura carcerazione del'imputato. Uso deliberatamente il termine "spudoratamente" perché chiunque mastichi anche solo un po' di codice penale, są che per un incensurato (come in questo caso) la condanna per diffamazione può significare al massimo l'affidamento ai servizi sociali, a meno che non decida arbitrariamente di scontarla in carcere. E che detenzione è quella di chi decide autonomamente di auto-infliggersela? Punitiva? Al massimo, dimostrativa.Sta di fatto che la questione è sembrata assurgere a carattere di urgenza, determinando l'ennesimo tentativo liberticida: una nuova norma, a firma Gasparri e Chiti, che dovrebbe passare giovedì in sede deliberante alla commisione giustizia del Senato. Abroga ogni pena detentiva del reato, e si connota per la sanzione pecuniaria minima applicabile: 30,000 euro, estesa anche a tutto quello che esce sulle testate on-line. Un deterrente formidabile per l'esercizio della critica democratica, e un'opportunità in più per i disinformatori di professione foraggiati dai poteri forti, che neppure reiterando all'infinito il reato rischieranno il carcere. Cui prodest?Il nuovo tentativo di tacitare la libera informazione, specialmente quella on-line, è l'ennesimo colpo di coda di un sistema di potere morente, ormai sfacciatamente consociato come dimostrano le firme dei segnatari Pd e Pdl. L'attuale legge, anche se imperfetta, rappresenta oggi un importante punto di equilibrio; pur prevedendo come extrema ratio la carcerazione, consente comunque una sostanziale libertà di critica. Prova ne sia lo stesso Travaglio, streguo perseguitore della casta, eppure sostanzialmente immune da decine di querele che lo hanno investito; come ha fatto?: gli è bastato verificare le fonti e scrivere la verità.Forse era il caso di difenderla, e senza cadere nei tranelli.
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