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La traversata dello Stretto

Creato il 26 luglio 2010 da Fabry2010

Di Anna Mallamo [Mangino Brioches]

La traversata dello Stretto

Lo Stretto salpa al mattino presto, o forse ancora di notte: il giorno non arriva da est e non è per davvero luce, il giorno sale come un fumo o una combustione spontanea di particolari ciottoli rosa, un vapore d’acque ferrigne, una vibrazione insopportabile che anima le lingue di terra, i vortici di sale, i pontili. Lo Stretto si disancora lentamente e comincia la sua massiccia navigazione, in senso longitudinale, attraverso il mediterraneo. Una propulsione misteriosa si sviluppa sotto tonnellate d’acqua e di roccia, sotto strati di nomi accumulati, terricci, ceramiche a figure rosse e nere, ruote di carro, cocci di bottiglia, monete ossidate con profili di tiranni, pallottole, vanghe, croci e ossa umane e disumane. Nessuno sa esattamente cosa sia: qualcuno dice i vulcani, qualcuno i giganti e i centìmani imprigionati nelle segrete e nel tempo, qualcuno persino gl’incendi rossi che tormentano il dorso nero delle colline, durante le notti. I motori girano sempre più veloci, col rumore di turbina del giorno che sale – o scende: non è chiaro il movimento della luce, né la sua natura. Le eliche gigantesche si muovono, aspirano le acque ioniche e tirreniche e formano vortici e garofali, distintamente percepibili anche nei giorni di foschia: sono i buchi nell’acqua dello Stretto, la sua costante lezione d’impossibile.
Le eliche girano, e lo Stretto salpa lentamente, col suo apparecchio di terre, coste, colline e il suo sistema chiuso e aperto di correnti. Noi stiamo nelle nostre città costiere, oppure nei paesi interni – ci sono paesi che guardano il mare e paesi che lo ignorano, paesi che si distanziano dal mare e paesi che tendono il collo fin quasi a toccarlo, per esempio con strade o file di lampioni o palazzine o leggende persistenti o sogni. Noi stiamo sulle spiagge, per ora, preferibilmente le spiagge attorno alla punta, ai piloni gemelli che non perdono mai la distanza reciproca (che è il loro modo di starsi vicini, di non mancarsi).
Lo Stretto naviga sicuro, fermo, al centro del mare, con la sua scriminatura di correnti, i suoi andirivieni tra le sponde, il suo chiacchiericcio ininterrotto: noi guardiamo la Calabria, che qualche volta è azzurra e immersa in se stessa, qualche volta è nitida e vicina, davanti alla porta di casa, e non puoi spalancare una finestra senza urtare qualcosa, una palma, un porticato, una tettoia di lamiere.
Lo Stretto gonfia le vele – che qualche volta sono immense, bianche e triangolari con vertici appuntiti che toccano il cielo, qualche volta sono basse e stracciate, e vi s’impigliano nuvole nere, gabbiani grigi, fili della biancheria – e naviga, naviga tra le terre.
Ci sono un gran numero di barche, navi e zattere, bastimenti e portacontainer, luntri e velieri, pescherecci e motoscafi, disseminati tra le terre e i mari, che ci guardano passare. Vengono da ogni dove, si piazzano lì, tra gli scogli o in mare aperto, alla fonda nelle rade, all’imboccatura dei porti, solo per guardare lo Stretto che passa, lento maestoso e antico, nella sua navigazione quotidiana.
Lo Stretto avanza a velocità moderata e costante, sempre trasversale e parallelo: taglia oriente e occidente, li gira in modo imprevedibile tra i suoi confini, dove il nord e il sud, il prima e il dopo, il sotto e il sopra sono una cosa diversa. Diversa dagli altri luoghi.
Si trascina i suoi bagnasciuga cangianti, le sue spiagge di sabbie e ciottoli, i suoi scogli smeraldini, e la gente radunata sulle navi – i velisti i croceristi i pirati gli scafisti i pescatori i marittimi i pendolari i bucanieri i passeggeri i turisti i contrabbandieri i balenieri – li guarda passare, dalla punta alla coda dello Stretto, che è un immenso pesce di roccia viva, coralli lavici e cavità polmonari piene d’acqua.
Lo Stretto sfila con la maestà naturale delle balene, col senso liquido dei venti delle meduse, con la furbizia punica del pescespada. Lo Stretto si divincola dimenando un poco i fianchi, attraversa i guadi, conducendo le sue greggi bianche di navi agnelle avanti e indietro. La gente le guarda passare, guarda sfilare le coste sicule o calabre, e nessun punto somiglia mai a un altro, o a se stesso. I paesini lunghi s’intersecano sui litorali, aggrappati alla navigazione lunga dello Stretto, tirrenica o ionica, a seconda dei giorni e delle correnti.
Io non lo so con certezza, ma dicono che lo Stretto attraversi ogni giorno tutti i mari, oceani compresi, per tornare la sera al suo posto. Di sicuro attraversa il mediterraneo, perché le reti di luce che getta ogni giorno sono ogni sera cariche di suoni, echi, riflessi, pesci, sillabe. Meduse, pescigatto, conchiglie, sirene. Orche, orchi, seppie, tartarughe. Greci, fenici, romani. Arabi, normanni, spagnoli.
Gli equipaggi lo vedono passare, e c’è sempre qualcuno che grida: Lo Stretto, c’è lo Stretto… e tutti salgono in coperta a veder passare le sponde e i mari e le colline e il cielo e i pesci e i fari e le navi. Il sartiame fa razzia di nuvole, spazza i cieli, le tolde – torri, ciminiere, pali della luce, cristi lunghi, campanili, viadotti – ondeggiano pericolosamente. Qualche volta le terre ci si specchiano, capovolte, e ciascuno può leggere sull’acqua il rovescio trasparente della sua propria vita, e trarne conforto, o disperazione.
Allora rimangono lì a guardare, con un nodo in gola, fino a che lo Stretto non è un punto lontano, incontro a tramonti o albe o altre cose indecifrabili. Le vele, sono le ultime a sparire.



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