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La Tunisia dopo la Primavera Araba. Intervista a Chiara Sebastiani

Creato il 19 dicembre 2014 da Bloglobal @bloglobal_opi

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di Sara Brzuszkiewicz e Giuseppe Dentice 

Trascorsi da pochi giorni il quarto anniversario dell’atto di Mohamed Bouazizi, il giovane ambulante che il 17 dicembre 2010 si diede fuoco davanti agli uffici del governatorato di Sidi Bouzid in un ultimo gesto di protesta contro il sequestro della propria attività, il prossimo 21 dicembre la Tunisia andrà al voto per eleggere il nuovo Presidente della Repubblica. Una tappa importante per il cammino post-rivoluzionario – a tratti incidentato – intrapreso da quella Tunisia che il 14 gennaio 2011 mise fine al regime di Zine El Abidine Ben Alì. Proprio quella Tunisia, oggi ritenuta il miglior laboratorio di idee politiche partorito dalle Rivoluzioni Arabe, aveva visto la protesta propagarsi in tutto il Paese, proseguendo anche successivamente quando il Presidente Ben Ali, prima di fuggire in Arabia Saudita, aveva tentato disperatamente di placare gli animi con promesse quali l’ammorbidimento della repressione, la liberalizzazione di internet e il rilascio dei prigionieri politici. Solo la fase iniziale della Rivoluzione poteva però dirsi conclusa, mentre quella costruttiva iniziava proprio in quei giorni, allorché la formazione dei partiti veniva liberalizzata e il 30 gennaio 2011 faceva ritorno in patria dall’ultraventennale esilio londinese il leader islamista Rashid Ghannouchi; ritorno che anticipava di poco la legalizzazione del partito islamista Ennahda, di cui questi è leader, che nelle elezioni del 23 ottobre 2011 per i membri dell’Assemblea Nazionale Costituente ottenne il 38% dei voti, pur dovendosi coalizzare con i partiti di estrazione secolare (Ettakatol e Congresso per la Repubblica).

Il processo di pacificazione delle diverse istanze politiche e sociali, libere di esprimersi, non fu tuttavia indolore, come dimostrano non solo i numerosi casi di violenze da parte dei salafiti tunisini o gli omicidi politici di Chokri Belaid e di Mohamed Brahmi, attribuiti dalle autorità ad Ansar al-Sharia ma mai realmente comprovati dai fatti, ma anche dal fallimento del Dialogo Nazionale che aveva l’obiettivo di aprire un confronto tra le parti politiche e la creazione di un governo tecnico ad interim.

La via democratica aperta dall’accordo sulla nuova Carta costituzionale e la nuova fase di compromesso ha condotto alle elezioni parlamentari dello scorso 26 ottobre vinte da Nidaa Tounes,  raggruppamento laico nato solo nel 2012 e guidato dal politico di lungo corso Beji Caid Essebsi. Il 23 novembre il Paese è tornato alle urne per le elezioni presidenziali, il cui primo turno si è concluso tuttavia con l’inevitabile ballottaggio tra lo stesso Essebsi e l’attuale Presidente ad interim Moncef Marzouki, del CpR e appoggiato anche da Ennahda che non ha invece presentato un proprio candidato. I risultati provvisori resi noti dall’ISIE (Istanza Superiore Indipendente per le Elezioni) danno Béji Caid Essebsi al 39,46% e Moncef Marzouki al 33,43%.

In questo lungo e controverso percorso, una costante è stata la progressiva presa di parola dei cittadini un tempo avulsi dal dibattito politico e sociale. Tale cambiamento è coinciso con la creazione di forme inedite di occupazione dei luoghi pubblici e di nuovi modi di vivere il concetto stesso di spazio.

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Una delle indagini più illuminanti a tale proposito è quella contenuta nel libro Una città una rivoluzione. Tunisi e la riconquista dello spazio pubblico“ (Pellegrini Editore, 2014) di Chiara Sebastiani, Professoressa dell’Università di Bologna-Alma Mater Studiorum, dove insegna Governo locale e Politiche delle Città, e profonda conoscitrice della Tunisia.  Ha inoltre insegnato presso l’Università della Calabria e l’Università “Cà Foscari” di Venezia.

Maturato attraverso esperienze tanto personali quanto accademiche, il pluriennale lavoro di ricerca si concentra sulla relazione tra lo spazio pubblico urbano e la sfera pubblica come pratica sociale, presentando uno spaccato diacronico della Tunisi in evoluzione, dagli spazi che Chiara Sebastiani definisce “pseudo-pubblici”, ovvero sprovvisti di interazioni libere e non gerarchiche come le piazze allestite da Ben Ali, a quelli attuali ancora in via di riconfigurazione.

Bourghiba, Ben Alì, Marzouki e ora forse Essebsi: come e quanto è cambiata la Tunisia dal dopoguerra ad oggi e quali sono le prospettive politiche per un Paese che ha sempre rappresentato una sorta di eccezione nel panorama nordafricano e mediorientale?

Più che come ad una eccezione, oggi dobbiamo guardare alla Tunisia come uno snodo fondamentale tra Maghreb e Mashreq, e tra Africa ed Europa. Dopo l’indipendenza (1956) troviamo un primo Presidente, Habib Bourguiba, che ha dato al Paese un’inconfondibile impronta modernista, laica, filo-occidentale tale da farlo considerare quasi una appendice dell’Europa e un secondo, Ben Ali, che l’ha portata dentro il sistema economico della globalizzazione e dentro quello culturale della re-islamizzazione. Bourguiba ha munito la Tunisia di un efficace apparato statale, di una buona sanità pubblica e di un eccellente sistema di pubblica istruzione – tutti e tre ampiamente ispirati al modello francese (e con il francese come seconda lingua ufficiale). Ben Ali ha puntato alle imprese off-shore, gli investitori stranieri, il turismo globale di massa, l’urbanizzazione, l’espansione dei consumi e la diffusione delle nuove tecnologie. Ha favorito la crescita di un nuovo ceto medio di origine provinciale e di una piccola borghesia di Stato, creando una rete di università nelle cittadine dell’interno e del sud, moltiplicando i posti nel pubblico impiego (basti pensare agli apparati di polizia), e favorendo l’accesso delle ragazze alle une e agli altri. La combinazione di questi due orientamenti ha prodotto la Tunisia “felice eccezione” del panorama nordafricano. Tuttavia si trattava pur sempre di regimi autoritari esperti nel celare le ombre a sguardi esterni. In primo luogo, la persistente opposizione politica: sia Bourguiba, sia Ben Ali hanno mosso una lotta spietata tanto alla sinistra di matrice social-comunista quanto al movimento di rinascita islamica Ennahda, ispirato alla Fratellanza Musulmana. Se nei confronti della sinistra laica vi sono stati periodici tentativi di cooptazione (con i partiti ai quali sono stati concessi alcuni seggi in parlamento) o di compromesso (con i sindacati e gli ordini professionali ai quali è stata concessa una sorta di coabitazione), nei confronti dell’Islam politico si è proceduto da un lato con la repressione brutale (carcere, tortura, eliminazione fisica) dall’altro con l’istaurazione di un Islam di Stato (moltiplicazione delle moschee ma controllo sugli imam di nomina presidenziale). In secondo luogo, gli squilibri regionali: ambedue i Presidenti hanno favorito lo sviluppo delle città costiere a scapito di quelle interne e delle zone urbane a scapito di quelle rurali. In terzo luogo, la crescente divaricazione sociale: lo sviluppo del nuovo ceto medio è poggiato sui bassi salari delle industrie e delle campagne e sul rigonfiamento inflazionistico dei diplomi universitari. E se la soppressione pressoché totale delle libertà civili era un coperchio sopra la pentola ribollente del disagio sociale, il dilagare della corruzione e delle pratiche mafiose nella gestione della cosa pubblica come dell’economia erano fuoco sotto la stessa pentola. Nel gennaio 2011 abbiamo visto un popolo unito nel reclamare le libertà civili e la partenza dei corrotti e dei profittatori; solo dopo la fuga di Ben Ali si sono manifestate le divisioni sociali e culturali ed è emerso – con sincero sconcerto di una parte delle vecchie élites – il Paese invisibile delle periferie, delle campagne, delle aree interne, poco laico, poco francofono, e alquanto deluso dall’Occidente. Marzouki è stato un Presidente di transizione e di garanzia: la sua biografia ne faceva una figura di mediatore tra la sinistra laica e l’islamismo politico, tra i ceti popolari e la borghesia francofona. Se ora verrà eletto Essebsi – cosa altamente probabile – si assisterà ad una profonda ridefinizione delle coordinate politiche. Il compromesso che già si sta delineando – tra il partito vincitore Nidaa Tounes, continuatore in linea retta del partito Neo-Destour di Bourguiba e del disciolto RCD (Rassemblement Constitutionnel Démocratique) di Ben Ali, e il partito islamista Ennahda, arrivato secondo e che detiene pur sempre un terzo dei seggi in Parlamento – ha forti probabilità di sdoganare l’Islam politico, di marginalizzare i vecchi partiti della sinistra laica e marxista, di favorire il consolidamento di nuove formazioni liberiste o populiste. In questo contesto sarà un esercizio interessante ridefinire anche la destra e la sinistra, con Nidaa e Ennahda, l’uno statalista, l’altro fautore di un’economia sociale, meno distanti di quanto si sia finora creduto, e nessuno dei due “laico”.

Proprio queste caratteristiche hanno reso la Tunisia e la sua transizione un laboratorio politico, almeno all’apparenza, riuscito e completamente diverso da quello di altri e più importanti Paesi come l’Egitto o la Libia. Quali sono le motivazioni alla base di ciò e quale ruolo ha giocato l’Islam politico tunisino in questo percorso? Quali sono le peculiarità dell’islamismo tunisino che lo rendono differente da quello egiziano, libico o algerino?

La Tunisia ama oggi definirsi non soltanto un laboratorio politico ma anche un possibile modello di transizione per gli altri Paesi della regione malgrado le lacerazioni che attualmente li caratterizzano. Il successo – fin ad oggi – della transizione tunisina viene solitamente spiegato con alcune variabili: l’assenza di risorse energetiche e di posizioni geopolitiche strategiche, l’omogeneità culturale e religiosa della popolazione, la mancanza di aree di povertà esplosive, il livello di istruzione mediamente alto e l’indole pacifica della popolazione. Tutto vero ma a questi vanno aggiunti fattori specificamente politici. Innanzitutto l’esistenza di organizzazioni politiche (o con funzioni politiche) di massa – il partito unico, il sindacato unico – di grandi corpi professionali come l’ordine degli avvocati, e di un movimento di massa islamista con forte penetrazione sociale. In secondo luogo, un vecchio notabilato politico (cui appartiene lo stesso Essebsi) con grande esperienza politico-amministrativa e una dirigenza islamista emergente, senza competenze amministrative (essendo sempre stata esclusa dai posti statali) ma con notevoli doti politiche acquisite ora in esilio ora in carcere, gli uni e gli altri inclini a pratiche deliberative, consensuali o consociative. La differenza tra l’islamismo tunisino e quello di altri Paesi della regione è dunque una differenza tutta politica e per nulla teologica e sta nella sensibilità istituzionale di cui ha dato prova la leadership di Ennahda (in primis il Presidente Rachid Ghannouchi), che deriva dalla fusione tra una tradizione giuridica arabo-islamica e un innesto di cultura moderna occidentale. Ciò ha portato la dirigenza islamista alla scelta di servirsi delle istituzioni (elezioni, Parlamento, Costituzione) senza però illudersi che una vittoria istituzionale, sia essa ottenuta alle urne o in Parlamento, equivalga alla conquista del potere: l’errore degli islamisti algerini ed egiziani. L’islamismo tunisino ha beneficiato peraltro di circostanze favorevoli dovute largamente ai Presidenti precedenti: grazie a Bourguiba in Tunisia non vi è un esercito forte e una casta militare, grazie a Ben Ali l’unico colpo di Stato è stato incruento (e ha salvato la vita agli islamisti stessi). Se si darà un compromesso storico, esso si dovrà al prevalere di un approccio istituzionale – anche in materia di religione – su di un approccio teologico.

Nel Suo ultimo lavoro e non solo si è occupata da un lato dell’azione femminile in politica e più in generale nella cosa pubblica e dall’altro del potere della politica di plasmare i luoghi. Come si uniscono questi due fattori nel caso tunisino? Lo spazio è sempre un elemento sessualizzato, ma in quale maniera lo era prima della Rivoluzione e in quale adesso? Come cambia la dislocazione spaziale, anche concreta, dei generi in Tunisia? Può farci degli esempi?

In Tunisia – come in tutti i Paesi mediterranei – il fatto spaziale si caratterizza a tutt’oggi per una certa separazione tra i sessi basata sulla complementarità dei ruoli. Mentre non esistono interdetti di natura giuridica o religiosa si danno tradizionalmente spazi pubblici maschili (il caffè, la strada) e femminili (il mercato, l’hammam). Poiché i primi coincidono largamente con gli spazi del discorso politico l’accesso delle donne alla politica soffre in partenza dello svantaggio derivante dall’esclusione – non di diritto ma di fatto – dai luoghi basilari di formazione dell’opinione politica. La rivoluzione, restituendo le libertà civili di assemblea e associazione, ha fatto emergere nuovi spazi – associazioni civiche, spazi culturali, sezioni di partito, organizzazioni di volontariato – in cui le donne sono componente maggioritaria. Si può dire che l’emergere della società civile abbia favorito soprattutto le donne: se gli spazi informali (la strada e il caffè) e quelli istituzionali (i partiti e le assemblee elettive) della politica sono tuttora prevalentemente maschili, la nuova area intermedia della società civile è occupata largamente dalle donne. Dal punto di vista spaziale invece poco è cambiato: con la rivoluzione prima, il governo islamista in seguito, e da ultimo la recente vittoria del partito anti-islamista, la sessualizzazione dello spazio resta funzione da un lato di una società patriarcale, dall’altro della condizione sociale. Così nei quartieri medio-alti le donne godono di maggiori libertà che nei quartieri popolari: il dress code è molto più elastico, gli spazi molto più misti sessualmente. Abiti e spazi peraltro non sono alla portata di tutte le borse. La differenza fondamentale tra i caffè – frequentati da soli uomini – e le “sale da tè” con pubblico misto sta nei prezzi decisamente più alti che si trovano nelle seconde. Un mutamento importante è frutto della lotta per l’egemonia culturale che dopo la rivoluzione contrappone vecchie e nuove élites. Come sempre e ovunque questa lotta passa per il corpo delle donne, attraverso le norme che ne determinano l’abbigliamento e il comportamento. Il velo è diventato uno dei simboli più potenti di questa lotta: di volta in volta simbolo di appartenenza religiosa o politica, oggi viene usato in chiave identitaria o come elemento di una nuova moda. Ancora più importante, infine, l’innovazione istituzionale della legge elettorale di parità, che impone l’alternanza di candidature maschile e femminili in tutte le liste. È grazie a questa legge che le donne in parlamento oggi sono quasi un terzo: percentuale rispettabile anche per standard europei.

Lei parla di ri-conquista dello spazio pubblico, in particolare per le cittadine ma non solo. Come pensa procederà questo processo? Potrà un giorno dirsi ultimato? Investirà anche le città minori e le aree rurali o Tunisi è destinata a rimanere un unicum nel Paese?

La rivoluzione è partita da una cittadina minore dell’interno, in una delle regioni più povere del Paese. Sidi Bouzid, Kasserine, Thala, sono stati luoghi di fortissimi scontri, luoghi che hanno dato martiri alla rivoluzione. La gente di questi posti, non diversamente che nella capitale, si è riappropriata dello spazio pubblico anzitutto attraverso i simboli: la toponomastica, la sostituzione dei monumenti del regime con quelli della rivoluzione. Difficile invece pensare a qualcosa di analogo per le aree rurali, spesso poverissime e prive di infrastrutture destinate alla socialità. Qui si può attendere un mutamento quando verrà implementato il decentramento previsto dalla Costituzione, in particolare la norma che estende l’instaurazione di assemblee elettive comunali all’intero territorio (finora era riservata alle aree urbane). Con il decentramento dovrebbe esserci l’avvio verso una democrazia partecipativa che includa piccoli centri e aree rurali e fornisca allo spazio pubblico riconquistato un riconoscimento anche istituzionale. Del resto, a fronte dei macroscopici squilibri tra centro e periferia, il decentramento dovrebbe comportare anche un ridisegno dei confini regionali, volto a superare l’eccessivo divario tra zone costiere e aree interne. In altri termini, se la riconquista dello spazio pubblico era già cosa fatta all’indomani della rivoluzione in tutto il Paese (e nessuno pare disposta a tornare indietro), è il divario economico e sociale tra capitale periferia che va ora affrontato. Se Tunisi rimanesse un unicum, la transizione democratica sarebbe a rischio.

Photo credits: Gwenaël Piaser

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