L’uomo trascina l’enorme valigia con evidente difficoltà. Dev’essere pesantissima, non riesce neppure a sollevarla da terra, la sospinge a fatica. La valigia ha le ruote, ma sobbalza sull’asfalto irregolare della stazione e sul marciapiede tenta di fare inciampare il suo proprietario. Nel salire e scendere dei sottopassaggi il percorso si complica. Lì le rotelle servono ancora meno. Si rischia la travolgente mutazione in una valanga che precipitando faccia marmellata della massa multietnica, multianonima, multifrettolosa, multipreoccupatadiperdereiltrenooprenderequellogiusto che popola, sia pure per il tempo di un’istantanea, ogni scalino. Ma il contenuto della valigia non merita di essere sparpagliato insieme a decine di mutande, abiti, stracci e souvenir qualsiasi. Perciò, l’uomo si sobbarca rassegnato la sfacchinata e in qualche modo trasporta la valigia: giù per i gradini, su per i gradini. Poi via, sulle rotelle, fino al binario giusto e al treno giusto. Sul quale può finalmente issare, con grande sforzo, quel gran bagaglio che è la sua vita.
Anche l’ascesa al treno è materialmente complicata. Altri potenziali passeggeri alle spalle dell’uomo sono al limite della sopportazione, costretti a prendere atto dell’inettitudine di quello che proprio viaggiatore modello non sembra essere. Per viaggiare, lo sanno tutti, occorre portarsi dietro poco ingombro, l’essenziale. Bisogna facilitare gli spostamenti, le corse verso coincidenze che si perdono o prendono sempre per un soffio e passare attraverso l’umanità migrante momentaneamente distribuita negli stretti corridoi… seduta o in piedi fa lo stesso, occupa comunque uno spazio importante che invadere non si può.
Bene quindi una 24 ore, o uno zaino minimo, una bag dimensione scatola da cerini. Leggeri e minimalisti.
Costui, invece, cosa avrà mai di così indispensabile da portarsi appresso?
I giovani, impazienti intorno a lui, non si sognano nemmeno di chiederlo: gli danno una spinta da dietro, altri tirano sul davanti, a forza, e finalmente l’uomo e i ricordi di una vita salgono sul treno.
Non è ancora finita. La valigia della memoria è ingombrante e nello scompartimento ostruisce il passaggio. Bisogna riporla nell’apposito vano, rispettare il viavai degli altri. Per un attimo l’uomo appare smarrito e sfiduciato. È esausto, non ce la farà mai a superare l’ultimo ostacolo. Non sembra giovanissimo, ha il viso scavato e rugoso. Certo, forse è solo un amante della vita all’aria aperta, che gli ha segnato il volto. O, più probabilmente, le rughe gliele hanno lasciate i giorni che si sono accumulati uno sull’altro, così tanti da non sapere quanti. E chissà, magari è proprio per questo che la valigia pesa, perché tutti quei giorni l’hanno riempita di dolori e di affetti, di gioia e di lacrime. Di emozioni.
Ancora una volta la fretta altrui gli viene in soccorso: viaggiatori leggeri e seccati lo aiutano a sistemarsi. Persone insofferenti, con pochi batticuori in tasca, con i ricordi investiti in BOT e poi accantonati, tanto sono svalutabili e rivalutabili. Il mondo va veloce, via le zavorre che impediscono di raggiungere una meta incerta.
Finalmente l’uomo può sedersi. Si abbandona di peso sul sedile. Davvero è stanco, ma la partenza era inevitabile. Lo aspettano. Insieme a tutti i ricordi che non può lasciare ad altri.
Appoggia la testa, chiude gli occhi. Comincia a fare l’inventario di ciò che ha messo nel bagaglio.
Il primo amore ce lo ha messo?
Sì.
Compreso il primo bacio, la prima volta che ha fatto l’amore?
Sì. E anche tutte le altre. E l’ultima volta pure, così dolce e struggente, consapevole di essere l’ultima.
La nascita del figlio c’è?
Sì. E la gioia indescrivibile provata nel far venire alla luce un se stesso in miniatura, proprio lui, il dottore delle mamme che già tanti bambini aveva fatto nascere, aiutandoli nel difficile percorso con le sue mani grandi e gentili. Il sole quel giorno si era affacciato in sala parto nello stesso istante in cui suo figlio si affacciava al mondo, e tutti i presenti ridevano e piangevano di commozione.
Accanto a un ricordo così intenso, c’è, inevitabile, il posto per lo strazio del cuore. La disgrazia di pochi (troppo pochi) anni dopo, l’incidente, l’inutile stridio dei freni. E il gran colpo contro quel ciliegio, mentre il bambino si gettava addosso al padre con l’intento di proteggerlo dall’urto.
Gli incubi… gli incubi di quel giorno e delle tante notti seguenti, li ha messi in valigia? E il senso di colpa, il rimorso, il dolore che uccide?
Sì, c’è tutto.
Pure la morte della moglie, insieme all’ultimo abbraccio, l’ultima stretta di mano e tutti i quasi cinquant’anni vissuti uno per l’altra nel bene e nel male. Nel bene e nel male. Il male era stato la morte del loro unico figlio per colpa sua, per un’involontaria quanto stupida distrazione. Il bene… l’amore immenso che li portava a stringersi l’uno all’altra nelle notti umide di lacrime.
Nella valigia c’è posto per tutto. Anche per il seme del ciliegio che fermò la vita innocente, e che marito e moglie piantarono insieme nel giardino di casa. L’albero nacque e crebbe, fiorì e fruttò, e in ogni frutto c’era una parte del loro bimbo.
Il seme c’è, vero? Sarebbe un guaio dimenticarlo.
Ma sì che c’è.
Le vacanze al mare, nonostante tutto?
Sì. E le immersioni. E ogni pesce che gli ha nuotato accanto facendolo sentire Nettuno. Il desiderio di non riemergere mai più. C’è pure quello. Come la boccata d’ossigeno che, strozzata, prepotente, entrava ogni volta nei polmoni, costringendolo a vivere. Perché in tanti avevano ancora bisogno di lui.
Il volontariato in Africa, la locale guerra civile, il dolore del mondo tutto sulle sue spalle impotenti?
Sì, certo che c’è, ci sono. E la speranza che il suo aiuto sia stato quella goccia di cui l’oceano non può fare a meno. E c’è anche quella volta che, nel continente morente, ha aiutato a scavare, con le mani delicate di chirurgo, per creare un pozzo e permettere la sopravvivenza. Pure questo era dare la vita.
I bambini di tutte le razze che ha aiutato a venire al mondo, grazie al proprio lavoro di ginecologo, ce li ha messi?
Sì, uno per uno. E purtroppo non poteva esimersi dal riporre, lì accanto a loro, anche tutti gli errori umani e professionali commessi in 40 anni di attività. Non era mai stato perfetto. La perfezione non ci sta, nel suo bagaglio.
Per forza che la valigia pesa, con tutte queste cose. Ma come poteva lasciarle a casa?
L’inventario prosegue. L’uomo, sempre ad occhi chiusi, rovista in ogni cassetto della memoria. Manca qualcosa? Ci pensa su ancora e ancora… c’è tempo per pensare.
Il treno è partito ormai da un po’. L’uomo si lascia cullare dal ritmo delle rotaie, si addormenta.
Corre, il treno, attraversa campagne, fiancheggia la costa e valica i passi montani.
Sale e scende l’umanità, si avvicendano i destini, s’incrociano le storie, si accumulano esperienze e ricordi. S’ingrossano, dopo tutto, i bagagli di ognuno. Lievitano, ingravidati dal tempo.
Inesorabile arriva la notte e ricopre i sogni, e il treno non si ferma. Non appare nemmeno appesantito da tutte le valigie che custodisce in grembo.
Alla meta prima o poi ci si arriva. Salvo scioperi, deragliamenti o dirottamenti. Alta velocità, velocità da crociera, a passo d’uomo. Passaggi a livelli e scambi, sapientemente intrecciati lungo il percorso, stazioni fantasma, automatizzate, capotreni e capostazione, palette rosse, semafori, fischio. Fischio, fischio, fischio… triste o allegro non si sa, non si è mai capito di che umore sia il fischio di un treno.
Mille e mille potenziali ostacoli lungo il viaggio che invece, stavolta, scorre liscio.
L’uomo non si sveglia. Nessuno lo sveglia. Chissà se ha finito l’inventario. Ci vuole tanto tempo per ripassare l’intera esistenza, per selezionare le cose meritevoli di essere messe in valigia separandole da quelle da lasciare a terra.
Il capo è appoggiato alla testiera del sedile, reclinato da un lato, la barba lunga di qualche giorno. Gli occhi non rivelano il movimento REM dei sogni.
Le labbra appena dischiuse in un lieve sorriso sono ferme e fredde.
L’uomo e il suo bagaglio di vita vissuta sono giunti a destinazione.