La vena umoristica uno ce l’ha o non ce l’ha, c’è poco da fare. Non si diventa divertenti con un corso universitario o studiando ironia e maieutica. La stessa barzelletta o lo stesso commento sagace perdono o acquistano valore a seconda di chi li racconta. Un’inflessione dialettale, un tono sopra le righe o anche solo una faccia particolarmente scema e tac! Il gioco è fatto: la gente ride. Considerazione scontata finché si parla… Ma a scrivere come funziona?
Ma (perché c’è sempre un ma, come sappiamo tutti). Fanno ridere? Secondo me si, o quanto meno sono di piacevole e fresca lettura. Sottoposte al consueto giudizio muliebre, hanno passato l’esame. Il che di per sé non vuol dire nulla, come ebbi già modo di osservare a suo tempo.
In generale ho notato che se nella vita l’essere “umorista” (passatemi la licenza (con chi parlo poi, non mi legge nessuno)) mi riesce abbastanza bene, in virtù di una creatività bizzarra ed un orrendo accento veneto, nello scritto queste “doti” mi sono negate. O meglio, mi è negato l’accento (Dio sia lodato), mentre la creatività bizzarra è quella che viene fuori alla grande: accostamenti linguistici strani, similitudine inusuali e uso di livelli lessicali contrapposti. Situazioni assurde, paradossali. Tutta roba che, me ne rendo conto solo ora, fa sbadigliare a vederla spiegata, ma messa in pratica, dovrebbe far ridere. Se uno fosse capace ad usarla.
In aggiunta, mentre si scrive qualcosa di umoristico, un traguardo particolarmente difficile da conseguire è quello di mantenere costante il livello comico. Perché la comicità a macchia di leopardo non convince: pensate un po’ a gran parte delle commedie americane, che fanno ridere per mezz’ora come dei pazzi, e poi tutto il resto è fuffa, riempitivo, spesso palloso. Oppure sbrodolatura sentimentale. Ed un romanzo, specie quello di un esordiente, non se lo può permettere …