Poi arriva il momento che uno dice la sua. Anche in un angoletto di casa, ragionandosi dentro. Perché non sempre quello che accade è necessario, anche se qualche insegnamento si può sempre trarre. In fin dei conti, non è per imparare che si va all’università? Un giorno mi ha chiamato mio suocero e mi ha detto: ti voglio presentare tre ragazzi che hanno bisogno di una mano. C’era il sole e ci siamo incontrati: si chiamavano allo stesso modo, Simone, Simone e Simona. Piccoli. Si laureavano e volevano fare qualcosa insieme, dentro o fuori dell’università. Avendo cultura amministrativa, potevo aiutarli a diventare qualcosa. Potevo e ho promesso di farlo. Un paio di loro colleghi, Antonio e Letizia, li hanno seguiti, portandosi dietro il referente scientifico, Antonio pure lui. Un altro pezzo doveva provenire da uno spin-off che già esisteva. E quella era la parola magica: spin-off. Sembrava facile, era un problema: trovare l’alchimia giusta per partire, intanto. Al posto del pezzo di spin-off si aggiunge Marcello e si decide di partire. La forma, Srl, anche se costa di più. I soci, otto. Con la domanda di spin-off pronta nel cassetto, e qualche difficoltà di percorso. Intanto, la metà dei giovini si deve laureare e bisogna aspettare. Poi, i tempi che non sono propizi: l’Istituzione in difficoltà, la campagna elettorale imminente. Ci si avvia piano, cercando una formula che consenta di operare alla luce del sole. I ragazzi fanno qualche lavoretto d’assaggio. Si aspetta. In autunno qualcosa si muove: intanto è finita l’incertezza e c’è un punto di riferimento finalmente aperto alla modernità. Evviva! I ragazzi fremono, aspettando che gli si indichi la strada per un riconoscimento ufficiale. Nel frattempo dimostrano ottime potenzialità, curando ogni aspetto di un progetto complesso e articolato, la realizzazione dell’ebook della strenna del MPS. Un successone, salutato con apprezzamento da giornali, tv, siti e mezzi di comunicazione assortiti. Dove si parla, sempre, dell’ambito universitario dove si sono messi insieme i saperi, incrociati i destini, intrapresi i percorsi formativi, trovati gli sbocchi. Una storia esemplare, forse, perché c’è chi, oltre a formare i ragazzi, gli trova uno sbocco. Per fare qualcosa nella vita. Che poi a pensarci bene è la finalità vera della carriera universitaria: si cerca di mettere insieme gli strumenti per fare.
I Simoni, Antonio, Letizia e Marcello fanno qualcosa di buono che viene notato in giro, spiegano che questo è stato possibile grazie all’Università di Siena. E continuano a fare. E’ questo, forse, che devono pagare, perché chi fa suscita l’invidia di chi non sa fare. E sparla. Il fiume sotterraneo s’ingrossa ben più rapidamente del fatturato di In.fact che alla fine dell’anno supera la soglia psicologica dei trentamila euro. Un colosso, che attrae fiumi di denaro. Per festeggiare, i ragazzi si regalano una pizza e un contratto a progetto di tremila euro a testa. Mille ogni due mesi per ciascuno. Gli sembra tanto. Gli sembra fantastico. Fanno tenerezza, ma sono in gamba e si meritano le soddisfazioni che si stanno togliendo, e piano piano arriveranno pure i soldi. Il lavoro paga sempre. Come anticipo, però, arriva la secchiata di veleno di quattro incappucciati che, atteggiandosi ad autoproclamati vendicatori dell’onta subita dall’istituzione plurisecolare denunciano come un sol uomo l’ignobile stortura. Naturalmente in forma anonima, non sia mai qualcuno volesse tutelare la propria onorabilità e chiedesse conto del cumulo di sconcezze proferite e lasciate a imperitura memoria su un sito ospitato dal provider antagonista che, in ossequio all’anarchico slancio, protegge la fabbrica delle calunnie dall’ira dei calunniati, e delle policy chissenefrega. A quel punto ci si aspetta una difesa accorata dell’Istituzione Mamma, che protegga i suoi giovani prodotti dalla canea. Proprio le storie come quella di In.fact possono rappresentare una grande ricchezza per il futuro: in termini di ritorno economico, oltre che d’immagine. Sapere che studiare a Siena può portare a costruire qualcosa per il futuro può essere una chiave per ricominciare a crescere e per trovare la risposta giusta a mille interrogativi angosciosi. Invece, niente. Silenzio, fino all’annuncio dell’apertura di un’indagine interna che farà luce sui fatti.
Non una parola sul fiume di parole dette e scritte a margine del lavoro fatto da questi ragazzi, che dice che In.fact esiste e porta lustro all’Istituzione. Che non riesce a comprendere la differenza tra farsi scrivere l’agenda da un anonimo pescatore nel torbido e rivendicare i frutti del buon lavoro dei suoi docenti, capaci non soltanto di accompagnare gli studenti nel lungo percorso che porta alla laurea, ma anche di creare le condizioni perché questi si leghino per la vita in un progetto imprenditoriale da portare avanti. Invece di attaccarsi a questa rarissima immagine positiva, l’Ateneo resta freddo e formale, perdendo l’occasione. Era qui che si doveva e poteva dare un segno per dimostrare di non essere un diplomificio e rivendicare come propri i piccoli successi dei ragazzi di In.fact. Alla Banca che ha creduto in loro le potenzialità non sono sfuggite: segno che chi ha occhi per guardare sa vedere dove sta il talento. Io osservo da lontano la storia, visto che non lavoro a In.fact, di cui resto socio e supporter. Amministratore senza delega, com’è facile scoprire, visto che si tratta di cose di pubblico dominio. Basta saper fare il proprio lavoro, ma forse di mestiere il cronista incappucciato fa altro. Mi verrebbe da ridere, se non fosse che ci sono storie pesanti di mezzo, con tanto di uso della mia foto e delle mie generalità e messa alla berlina di mia moglie, colpevole di essere tale e, soprattutto, figlia. L’anonima messa alla gogna niente risparmia, mentre l’Istituzione ha gli occhi annebbiati e invece di proteggere dall’infamia dipendenti, docenti e studenti si presta a riproporne i contenuti, regalandogli spazio nella rassegna stampa interna, proposta ad un pubblico ben più ampio di quello abituato ad attingere a siffatte sorgenti. Complimentandomi vivissimamente, rinuncio su due piedi a completare i miei studi, che languono per i troppi impegni di lavoro. L’ateneo rinuncerà ai bei soldoni delle mie tasse universitarie, ben superiori alla paga bimestrale di un ragazzo di In.fact, il che costituirà finalmente motivo, seppur minimo, per associare il mio nome al dissesto finanziario dell’Università senese. Peccato che un infame l’abbia già fatto, senza assumersene la responsabilità. Anonimamente. Come si conviene a chi non è presentabile e perciò preferisce usare un nickname per vomitare le proprie calunnie. Trovando ascolto dove proprio non dovrebbe.
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