Quel che resta del secondo plotone sonnecchia in una trincea distrutta dai proiettili dietro il fronte.
«Che ridicole granate» dice Jupp all’improvviso.
«Cosa intendi?” domanda Ferdinand Kosole mettendosi a sedere.
«Prova ad ascoltare» risponde Jupp.
Kosole mette una mano all’orecchio e ascolta. Anche noi ci sforziamo di sentire rumori nella notte. Ma non ci arriva altro che il rombo sordo dell’artiglieria e il sibilo acuto delle granate. Da destra di quando in quando esplode anche lo scoppiettìo delle mitragliatrici e ogni tanto un grido. Ma tutto questo lo conosciamo da anni e non merita che si apra la bocca apposta.
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La via del ritorno è il seguito di Niente di nuovo sul fronte occidentale, il capolavoro di Erich Maria Remarque, il romanzo-diario che ricostruisce la vita in trincea di un gruppo di giovani studenti tedeschi durante la Prima Guerra Mondiale.
Ne La via del ritorno si racconta il disorientamento dei soldati, il loro dramma di uomini lacerati e con l’animo a pezzi, reduci incapaci di reinserirsi nella società.
La guerra, anche se è finita, rimane dentro mentre la pace resta fuori. Le esperienze e i ricordi della guerra hanno lasciato un segno profondo e sconvolgente. La guerra non restituisce eroi tutti d’un pezzo ma uomini vinti dagli orrori che hanno dovuto affrontare.
Ci si domanda, leggendo, se davvero la beatitudine esiste in ogni alba e nell’essere vivi e quali siano davvero le cose che formano un uomo nella sua vita e quali quelle che distruggono lui, i suoi affetti, la sua famiglia…
C’è uno stralcio simbolico che vorrei riportare integralmente.
La mattina dopo ci troviamo per l’ultima volta al fronte. Non si spara quasi più. La guerra e finita. Entro un’ora dovremo andarcene. Non sarà necessario tornare qui, mai più. Quando ce ne andremo, ce ne andremo per sempre. Facciamo a pezzi tutto quello che si può fare a pezzi. Ben poco. Un paio di rifugi sotterranei. Poi arriva l’ordine di ritirarci.
É un momento particolare. Stiamo in piedi, uno vicino all’altro, e guardiamo davanti a noi. Leggeri banchi di nebbia ricoprono il terreno. Le linee delle buche e delle trincee si riconoscono chiaramente. Certo, sono soltanto le ultime linee, questa zona rientra nelle posizioni di riserva, ma è pur sempre zona di combattimento. Quante volte abbiamo proceduto lungo queste trincee! Quante volte le abbiamo attraversate ritornando in pochi! Davanti a noi si stende il paesaggio uniforme e grigio… Laggiù in fondo i resti del boschetto, un paio di ceppi, le rovine del villaggio, e lì in mezzo un alto muro solitario che è riuscito a rimanere in piedi.
«Be’» dice Bethke soprappensiero, «qui siamo stati per quattro anni…»
«Accidenti!» concorda Kosole. «E adesso è finita»
«Oh, Dio mio!» Willy Homeyer si appoggia al parapetto. «Ridicolo, non è vero?…»
Stiamo li con gli sguardi imbambolati. L’orizzonte, i resti del bosco, le colline, le linee in distanza, tutto ciò era un mondo terribile e una vita difficile. E adesso rimane lì, non appena ci incamminiamo, sprofonda a ogni passo dietro di noi e tra un’ora sarà scomparso, come se non ci fosse mai stato. Chi può mai capirlo!
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ERICH MARIA REMARQUE, La via del ritorno, traduzione dal tedesco di Chiara Ujka, Neri Pozza editore 2014.