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La vie en rose

Creato il 13 novembre 2011 da Tnepd

gazzetta

 

Premetto che Paolo Barnard è un personaggio che mi è umanamente simpatico. Probabilmente perché mi somiglia parecchio. O almeno, somiglia a me come ero fino a qualche anno fa. Dietro i suoi sbrocchi sempre più veementi, dietro la sua furia impotente di fronte allo sfascio economico, dietro al suo continuo prendere a ceffoni gli allibiti lettori che lo seguono, scorgo una rabbia sincera, il travaso di bile genuino e incontenibile di chi crede di aver compreso (e in parte ha compreso effettivamente) alcuni meccanismi economici che stanno conducendo il nostro continente ad una devastazione senza precedenti, al guinzaglio delle politiche di potenza dell’impero centrale; e non scorge, né riesce a produrre nell’opinione pubblica – nonostante l’impegno e i sacrifici personali – una reazione adeguata alla minaccia incombente.

 

Preferisco di gran lunga Barnard ai suoi detrattori, benché le analisi economiche di questi ultimi siano spesso più accurate e convincenti delle sue. Le analisi, giuste o sbagliate che siano, non servono a un tubo senza l’energia e l’impegno che nascono dall’indignazione, dalla ribellione morale, dal desiderio di agire. Leonida fermò i persiani alle Termopili partendo da una valutazione completamente sbagliata delle forze in campo. Colombo scoprì il continente americano mentre cercava di raggiungere l’oriente, fondandosi su calcoli pacchianamente erronei della misura della circonferenza terrestre. Tutte le grandi imprese della storia umana sono scaturite dalla risolutezza di individui o gruppi di individui animati dalla determinazione a muoversi ad ogni costo,  prescindendo dalle dotte ed accurate analisi che – razionalmente e fondatamente – consigliavano di restare fermi dove si era.

 

Somigliavo parecchio a Barnard, meno di una decina di anni fa. Facevo il rappresentante sindacale e mi ero reso improvvisamente conto di come la collusione tra sindacati e gruppi imprenditoriali lavorasse, in realtà, per lo smantellamento dei diritti dei lavoratori, anziché per la loro salvaguardia. E’ terribile entrare in un ente che si crede (ingenuamente) composto di “difensori della patria” e trovarlo interamente occupato da agenti del nemico. Roba da sbroccare di brutto. Urlavo e strepitavo contro tutti e tutto, prendevo a parolacce i superiori (con i conseguenti provvedimenti disciplinari del caso), assalivo i miei stessi referenti sindacali durante le assemblee, mettendo in scena memorabili risse verbali, adiacenti alla colluttazione fisica. Soprattutto, me la prendevo con i miei colleghi di fabbrica, colpevoli, ai miei occhi, di una pavidità e di un’incomprensione criminale delle strategie con cui padronato e sindacati confederali li stavano conducendo alla schiavitù.

 

Ci avevo visto giusto? Certamente sì, come tristemente evidenziato dai recenti sviluppi contrattuali.

 

Facevo bene a trattare tutti da vigliacchi e da idioti? Certamente no. Ero io l’idiota. E’ da stupidi pretendere di “convincere” le persone a mobilitarsi contro il potere costituito, per quanto ottimi possano essere gli argomenti che si possiedono. La prudenza e l’istinto consiglieranno sempre di rimanere dalla parte del più forte, anche se il più forte è colui che si appresta a macellarti e servirti in tavola con contorno di broccoli. E’ la natura umana a determinare questo atteggiamento; e delle leggi della natura bisogna limitarsi a prendere atto, non serve a niente aggredirle a parolacce. O si possiedono i mezzi, non per “convincere”, ma per costringere, con le buone e/o con le meno buone, i recalcitranti a seguirti sulla strada che intendi intraprendere; oppure è meglio non sprecare troppo fiato e non far patire il fegato. Un fegato ulcerato non ha nulla di rivoluzionario. E’ più saporito da gustare per i commensali che lo serviranno in tavola. E pregiudica gravemente la lucidità delle analisi. Le quali, come dicevo, non devono mai rappresentare l’unico elemento su cui fondare l’azione, ma hanno pur sempre una loro indubbia rilevanza preliminare quando si tratta di decidere alleanze e strategie per il perseguimento degli obiettivi.

 

In questo suo ormai celeberrimo scritto, pubblicato sul web e diffusosi a macchia d’olio pochi giorni prima della “svolta Monti”, Barnard invitava Berlusconi a non dimettersi, per evitare all’Italia il commissariamento, la procedura fallimentare e il declino irreversibile che gli Stati Uniti – per mezzo dei maggiordomi Merkel, Sarkozy e Napolitano – intendono imporle per soddisfare i propri interessi strategici. Ora, anche mettendo da parte tutto il male che penso di Berlusconi (e mi ci vuole un silos per metterlo da parte), qui appare chiaro che la disperazione, pur comprensibile e legittima, porta Barnard a sragionare completamente (salvo che si trattasse di una “provocazione”, in questo caso più stucchevole della media). Vero è che se si vuole liberarsi di un nemico feroce e implacabile, non bisogna mai essere schizzinosi sulle alleanze da stringere. Ma Berlusconi non è soltanto un personaggio politicamente inetto, incapace di concepire strategie di respiro nazionale o internazionale, interessato ai destini politici dell’’Italia solo nella misura in cui questi ultimi influiscono sui profitti delle sue miserabili aziende. E’ anche un personaggio che, almeno a partire dal 14 dicembre scorso (cioè dal fallito voto di sfiducia, con annesso sconquasso della città di Roma ad opera dei soliti scalmanati eterodiretti) ha deciso di stendersi a scendiletto sotto i piedi dei dominatori americani, di rinnegare clamorosamente i pur vaghi guizzi di politica estera intrapresi negli anni precedenti, di accettare senza un barlume di vergogna la fornitura di basi e aerei militari con cui ridurre in macerie, su ordine statunitense, un paese (la Libia) con il quale, appena sei mesi prima, aveva stretto proficui rapporti di cooperazione.

 


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