La vittoria di Benjamin Netanyahu aggrava i contrasti tra Usa e Israele
Il 17 marzo scorso, il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, è stato confermato per un quarto mandato alla guida di Israele.
Con questa vittoria Bibi, come è conosciuto da amici e detrattori, è riuscito a superare, in longevità politica, anche di Ben Gurion, primo capo del governo israeliano.
Il suo partito, il conservatore Likud, ha ottenuto 30 dei 120 seggi della Knesset, il parlamento israeliano, e, grazie ai voti di altri partiti della destra, potrebbe formare il suo quarto gabinetto in tempi brevi.
Tuttavia, la nuova affermazione di Netanyahu rischia di essere una nuova tappa nei contrasti crescenti tra gli Usa ed Israele.
A parte la netta contrarietà di Bibi a qualsiasi accordo sul nucleare iraniano - ora in discussione a Ginevra tra John Kerry e Javad Zarif - ciò che ha generato irritazione negli ambienti della Casa Bianca è stata l’ultima affermazione elettorale del premier.
Questi, infatti, il giorno prima della chiusura della campagna, ha sostenuto che finché fosse restato primo ministro, non sarebbe mai nato uno stato palestinese.
Una posizione del tutto inedita, in netto contrasto con quanto aveva sostenuto nel 2009, quando aveva parlato della necessità di favorire la nascita di due stati, israeliano e palestinese e una chiara mossa per ottenere il voto degli ebrei ultraconservatori.
Barack Obama non ha preso bene l’ultima sparata del premier e per ben due giorni, dopo le elezioni, non lo ha chiamato per la consueta telefonata di congratulazioni.
Poi, quando finalmente ha alzato il telefono, giovedì, ha voluto manifestargli tutte le sue perplessità.
Gli ha infatti detto che, a seguito delle nuove posizioni di Netanyahu, gli Usa avrebbero iniziato a pensare ad una rivalutazione della loro politica verso Israele.
Secondo alcuni commentatori, Obama avrebbe detto al premier che, viste le scelte di Tel Aviv, gli Usa avrebbero potuto appoggiare una mozione del Consiglio di Sicurezza Onu, volta a chiedere il ritiro di Israele all’interno dei confini precedenti alla guerra dei Sei Giorni del 1967.
Un documento su cui, in passato, Washington aveva sempre posto il veto, per proteggere il suo alleato, facendolo sempre fallire.
Non a caso, quando Netanyahu si è reso conto di aver forse esagerato, ha dato una serie di interviste a media americani per correggere, in parte, la portata delle sue affermazioni.
I contrasti tra i due capi di stato non sono una novità, tuttavia, quello che è necessario evidenziare sono anche le conseguenze internazionali e interne agli Usa delle parole di Netanyahu.
In primo luogo, Israele, a seguito della presa di posizione del premier contro la soluzione del conflitto israelo-palestinese secondo la logica dei due stati, rischia di trovarsi sempre più isolata.
Sulla scena mondiale, Tel Aviv non apparirà più solo come la nazione figlia dell’Olocausto nazista, ma anche come uno stato occupante che opprime i diritti di un popolo, quello palestinese, che numerose risoluzioni Onu hanno tentato di tutelare.
Anche le nuove generazioni israeliane, poco avvezze a conoscere l’orribile passato del popolo ebraico, rischiano di essere influenzate da tale immagine.
Un discorso analogo può essere fatto per ciò che riguarda l’elettorato ebraico negli Usa, spesso molto influente negli esiti delle campagne presidenziali.
Chi potrebbe essere piùdanneggiato dalla nuova politica di Netanyahu è il partito democratico.
L’elettorato ebraico americano è in buona parte schierato con il partito di Obama, tuttavia, molti politici democratici ebrei temono la possibilità di essere sfidati alle primarie da candidati apertamente critici nei confronti del governo israeliano.
I sondaggi evidenziano infatti che, anche a causa di Netanyahu, Israele sta diventando molto impopolare tra gli afroamericani, i latinos e i giovani, una fetta molto importante del bacino elettorale democratico.
Proprio la possibilità che Israele possa perdere consensi all’interno del partito, potrebbe indurre molti elettori ebraici ad abbandonare i progressisti per gettarsi fra le braccia dei repubblicani.
Un vero e proprio incubo per Hillary Clinton, probabile candidato democratica alle elezioni presidenziali del 2016.
Se infatti questa decidesse di criticare le scelte del governo di Tel Aviv, potrebbe alienarsi le simpatie degli elettori ebraici più conservatori, consegnando la vittoria finale ad un rivale repubblicano.