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Laboratorio Lovecraft - Lovecraft e la discendenza “maledetta”

Creato il 15 marzo 2014 da Letteratura Horror @RedazioneLH

Laboratorio Lovecraft - Lovecraft e la discendenza “maledetta”Laboratorio Lovecraft si arricchisce di un altro contributo a firma di Andrea Casella che, oggi, tratta per voi il tema della discendenza “maledetta” nelle storie del Maestro di Providence.
Uno degli elementi senz'altro più interessanti dell'universo lovecraftiano è costituito dal tema della discendenza maledetta, o della “colpa ereditaria”. Per Lovecraft non vale assolutamente la prescrizione biblica (seguita dalla moderna teoria giuspenalistica della “personalità” e della “attribuibilità” della colpa) secondo cui: “Le colpe dei padri non devono ricadere sulla testa dei figli”.

In Lovecraft le colpe dei padri, invece, ricadono, eccome, sulla testa dei figli, macchiandone la condotta fino a quel momento irreprensibile. E' un elemento che gli deriva in larga parte, oltre che da esperienze di vita diretta (Howard nutrì sempre un sentimento di amore-odio per la propria famiglia e la sua storia) dalla lettura delle opere di Edgar Allan Poe e di Arthur Machen. Il primo, che faceva peraltro uso larghissimo della tematica della reincarnazione (vedi Morella, Ligeia etc.), lo influenzò con la descrizione di una nobiltà antica e decaduta, snervata dal trascorrere del tempo e minata nella sanità psichica (di cui Il crollo della casa Usher è capolavoro impareggiabile), mentre il secondo gli fece aprire gli occhi sulla possibilità che la corruzione e il male originatisi nell'antichità potessero sopravvivere a distanza di anni (così Il grande dio Pan, capolavoro dello scrittore gallese). La razza corrotta rimane tale, il sangue oscuro non si lava (potremmo dire, “buon sangue non mente”): coloro che sono corrotti nell'intimo rimangono tali. Per Lovecraft non esiste appello: la colpa non è mai solo del singolo, ma è della stirpe. A Lovecraft interessa poco se il discendente è un santo o un uomo retto: è colpevole comunque in virtù del sangue. Riprendendo il concetto schopenhaueriano della Volontà che sottende tutti i fenomeni apparentemente diversi accomunandoli, possiamo ben dire che per Lovecraft tutti sono nel contempo “vittime e carnefici”. Nessuno è incolpevole, fosse anche il più puro degli uomini.
Sarà bene, a questo punto, fare un rapido excursus dell'opera lovecraftiana. Il tema della colpa ereditaria si affaccia per la prima volta in Lovecraft con alcuni racconti giovanili. L'alchimista, del 1908 (scritto quindi all'età di diciotto anni), ne è il primo esperimento. Esso è un tipico racconto gotico-poeiano, con il castello e il nobile casato colpito da un'apparente maledizione lanciata su di esso secoli prima da uno stregone. L'alchimista è anche importante perché segna il punto di passaggio tra il Lovecraft “puerile” a quello “giovanile”: dopo questo racconto ci sono nove anni di silenzio letterario al termine dei quali uscirà (a parere del sottoscritto) uno sei suoi massimi capolavori: La tomba. Ed in questo racconto ritorna il tema della colpa ereditaria (anche se in effetti sarebbe meglio parlare di “morte ereditaria”). Jervas, ragazzo introverso e affascinato dalla morte (è chiaramente un alter-ego di Howard), scopre un'antica tomba in un bosco chiusa con un lucchetto, ed è suo desiderio penetrare all'interno di essa. Dopo essere riuscito nell'impresa egli si mette a giacere in una bara stranamente vuota e sulla quale è scritto solo un nome di battesimo (si intuisce quale dovrebbe essere). I successivi sviluppi porteranno alla scoperta della storia della famiglia di Jervas, legata indissolubilmente alla tomba nel bosco. Altro racconto avente come tematica la discendenza maledetta è La verità sul defunto Arthur Jermyn e la sua famiglia, che può essere considerato il vero antesignano di quel capolavoro lovecraftiano che è esemplare (anche) per questa tematica, e che risponde al nome de I ratti nei muri. In questo racconto si rileva bene come le colpe degli antenati covino nel sangue di discendenti all'apparenza estranei a tutto e animati da sani principi di vita. Nel racconto lo si dice esplicitamente: se per caso il primogenito si fosse dimostrato un uomo retto, si poteva stare pur certi che la sua vita non sarebbe stata lunga, e il suo posto sarebbe stato preso da un individuo più “in linea” con la tradizione. La raccapricciante scoperta effettuata dall'ultimo dei Delapore (o de la Poer) nei sotterranei di Exham Priory lo induce a dar sfogo al proprio istinto ereditario, uccidendo Norrys e iniziando a divorarlo, prima di essere trovato e fermato dagli altri componenti della spedizione. I de la Poer erano una famiglia di cannibali adoratori di Ati-Nyarlathotep che avevano allestito un allevamento di esseri umani in una enorme grotta nei sotterranei della tenuta ancestrale, prima che uno di loro, Walter (un individuo descritto come una persona di buoni principi), non ponesse fine all'orrore uccidendo i propri parenti e fuggendo in America. Sanità di principi in Walter, dunque. Ma solo fino a che l'ultimo dei de la Poer non sente il “trepestio antichissimo dei topi”, suono sinistro che esiste solo nella sua testa, e che gli rivela la sua tradizione e la sua vera natura. Un'altra opera lovecraftiana su tale tema è l'elaboratissimo romanzo breve Il caso di Charles Dexter Ward, in cui il protagonista, datosi ad esperimenti di alchimia e allo studio di dottrine ermetiche, finisce per evocare lo spirito di un suo diabolico antenato, tal Joseph Curwen, che prende possesso di lui “sostituendolo” letteralmente.
Un simile espediente è utile, sul piano stilistico, per due ordini di motivi: da una parte, con l'alludere, ad inizio della storia, a fatti del passato si crea la suspense necessaria per il disvelamento finale; dall'altra si può caricare il resoconto di quei fatti storici (o pseudo- o para- storici) che aiutano moltissimo l'excursus narrativo, inquadrandolo in una cornice di verosimiglianza e vicinanza ai fatti reali che costituisce un sicuro punto di forza di un racconto del terrore ben costruito.
Terminando quest'insieme di spunti, è mia intenzione riservarmi uno spazio per un nuovo intervento, legato al presente, ma da esso distinto. Ebbene, si è fatto più sopra un breve accenno alla “razza.” È interessante rilevare che il tema della “razza” è un altro dei punti “controversi” dell'esperienza lovecraftiana: erano noti il suo razzismo e il suo antisemitismo (almeno iniziali), ai quali lo stesso Poe non era certo estraneo. Edgar, infatti, era fermamente scettico sull'uguaglianza fra gli uomini (Dialogo di Monos e Una) e considerava i neri una razza inferiore: pensiero che traspare chiaramente dal Gordon Pym, con la descrizione della malvagità e iniquità degli scuri indigeni antartici. Ma ci sembra di essere andati un po' troppo oltre: lasciamo quindi che il tema più propriamente improntato all'ideale della “razza” in Lovecraft sia sviscerato, magari, in un intervento seguente.

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