Io il caffè non lo prendo neanche il lunedì mattina, quando tutti avrebbero bisogno di rinsavire dal disagio dell’inizio settimana. Per me la caffeina potrebbe anche sparire dalla faccia della terra, proprio come il sushi, le canzoni di Jovanotti e le citazioni di Paolo Coelho. Latte liscio e cornflakes ripeto a chi mi chiede cosa prendo per colazione. Latte liscio. E in questo lunedì mattina, assieme ai cereali, pesco i miei pensieri dal mare bianco e liquido della settimana trascorsa. Cornflakes che crocchiano nella testa per quello che è successo in questi giorni e, forse, non mi è andato giù del tutto.
Ho in mente un anziano che mi chiede: “Chi è quello?”. Un flashback nitido come se fosse di poche ore fa. Nell’umido e nel freddo di quella sera ho risposto: “Ciolek. Il vincitore”. Gerald Ciolek, cappellino di lana in testa e faccia bianca, ancora congelata da quei chilometri nel gelo di una primavera impossibile. Naso arrossato e occhi lucidi, bellissimi, come quelli di chi sa di aver fatto qualcosa di importante, forse di unico. Gerald sorridente vicino al pullman della sua squadra: un vincitore di una Sanremo che ha il desiderio innocente di restare in quell’aria gelida e fortunata, in pasto ai cacciatori di borracce che si aggirano quando il circo chiude i battenti. Ha un trancio di pizza fredda in mano e la mangiucchia tra le risate dei suoi amici che sono venuti fin lì e forse non se lo aspettavano nemmeno loro. Firma un autografo a un bambino che glielo chiede, non finisce nemmeno di mangiare: scrive, si fa scattare le foto, è contento. Un vincitore di quelli che piacciono a me, senza corone in testa, con la consapevolezza che la bicicletta tutto dà e tutto toglie. Tornano a galla quei pensieri, come cornflakes nel latte della mia quotidianità, perché giovedì RCS ha deciso a chi regalare le Wild Card per partecipare al Giro d’Italia. Tre su otto. La MTN-Qhubeka, la squadra di Ciolek, che era in quella lista, non è stata invitata. Sì, una realtà africana che per tutta la passata stagione ha fatto di tutto per mettersi in mostra (e ci è riuscita), per conquistare la fiducia genuina del pubblico sulle strade e ha un progetto solidale bellissimo alle spalle, non è stata degna. Al suo posto un team che proprio non si poteva lasciare fuori perché altrimenti le polemiche sarebbero diventate davvero troppe. L’ex Vini Fantini che l’anno scorso ha consegnato al Giro due casi di doping è stata nuovamente prescelta e l’acclamazione di popolo è stata quasi unanime. E non c’è da stupirsi perché l’Italiuccia che il patriottismo se lo cuce addosso per le occasioni, ha tirato in ballo l’orgoglio italiano. Ma il ciclismo non è questo, altrimenti si chiamerebbe calcio, quando tutti, persino le casalinghe che guardano Beautiful in televisione, si mettono davanti allo schermo che trasmette i Mondiali e sospirano: “Guardo solo perché gioca l’Italia.”
No, il ciclismo non è questo. Parla la lingua della strada e fratelli lo siamo un po’ tutti. No, il ciclismo non deve, non può essere questo: punire i corridori in superficie e lasciar fermentare le radici. Togliere la fiducia a chi sbaglia sulla propria pelle e continuare a regalare tappeti rossi a chi le scarpe le ha pulite ma solo perché le lucida ogni volta, a ogni cambiamento di vento.
Sì perché in questo sport i ventagli si formano anche quando non si è sulla bicicletta. Vento che, senza che tu te ne accorga, allontana dal gruppo. Il pensiero di Alessandro Ballan è un’altra manciata di cornflakes di questa mattina: sorrisi, vittorie, un iride e sfortuna, un infortunio. E poi ancora sfortuna. Fino ai due anni di squalifica di venerdì scorso per sedute di ozono terapia effettuate nel 2009. E se qualcuno vuole saperne di più basta cercare su internet perché i copiaincolla si susseguono senza fine. Qui no. Su questo blog non ce ne saranno mai. Sarò sincera e dirò che ogni volta mi stupisco di quanto l’umanità, nonostante si tatui in continuazione sulla pelle la frase celeberrima “Only God can judge me” si ostini a giudicare gli altri con l’assoluta convinzione di averne il diritto. Siamo uomini o dei? Ecco, questo mi fa tristezza mentre ripesco i miei cornflakes: l’osanna e la crocifissione, le palme e i chiodi. Le stesse mani che hanno applaudito, ora puntano il dito. Pietà per uno e inclemenza per l’altro. Braccia aperte e wild card per qualcuno ed esilio per altri.
No, il ciclismo non può essere questo. Non si potrà mai fare pulizia vera, reale, in questo modo. Non così farete capire alla gente che questo sport merita amore e fiducia.
“Il mondo è un pantano. Bisogna stare sulle alture” diceva Balzac. E’ anche vero però, che non è sempre facile: il terreno è scivoloso e capita che qualcuno ti spinga nel fango. E quando si risale succede che quel fango ti rimanga addosso e chi ha spinto conservi le mani pulite. E’ così difficile distinguere chi cade e chi spinge che, a volte, ci si fida di più di chi porta ancora con sé i segni del crollo. Mi fido di più di Alessandro, di persone come lui che hanno portato la loro fatica sulla strada, piuttosto che dei lupi travestiti da agnelli.
Da domani, lo prometto, ricominceremo a parlare di ciclismo senza se e senza ma. A tutti quelli che, da oggi, dichiareranno “non seguirò più questo sport, mi ha deluso” mi permetto di dire che, in realtà, non l’hanno mai seguito davvero. La delusione, qualunque essa sia, non è una scusa per non voler più bene. Voglio ancora bene al ciclismo, nella sua crudezza e nella sua tenerezza, ho ancora bisogno di vedere quei ragazzi pedalare liberi, ora e per tutti i lunedì, neri o bianchi, che verranno.