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le "cose" che non ho detto.

Da Stanford @stanfordissimo

Le cose.  In quella parola ci sta di tutto, dai cicli mestruali delle amiche se  sono le “loro cose”, alle incombenze da sbrigare se sono “cose da fare” o i segreti famigliari se sono “cose di famiglia”. Ognuno ha le sue cose anche nel senso di oggetti materiali e quelle sono le cose degli altri che preferisco, perché sono più oneste delle persone a cui appartengono. La collana di avorio che la mamma tiene in camera sua mi dice che un tempo le piaceva farsi notare, nonostante oggi abbia un'aria tanto dimessa e dica di se, che “preferisce passare inosservata”. Nella STANzetta di oggi parliamo di oggetti. Perché li teniamo con noi? Il valore delle cose che possediamo non c'entra perché spesso gli oggetti più cari non hanno grande valore ma sono più semplicemente dei rammentatori di ciò che siamo stati o dei sentimenti a questi legati. Potremo dire che definirli dei “passaporta”, come succede nei film di Harry Potter, sia una geniale maniera di descriverli dell'autrice del famoso maghetto, il quale toccando un semplice scarpone passava dal passato al presente come prendendo un ascensore da un piano all'altro. Non vi è mai capitato a casa della nonna o aprendo l'armadio di mamma, di trovare un oggetto che sta li come se fosse dimenticato, e di provare la curiosità di saperne di più? Quando chiesi a mia madre di raccontarmi di più sulla borsetta di vernice con le rose ricamate che stava buttando in pattumiera, notai che un lieve imbarazzo la colse ma insieme anche una malinconia per la “ragazza” che l'aveva indossata. Subito dopo mi liquidò dandomi semplicemente del impiccione, e chiuse quel sacco col segreto che conteneva e se ne disfò con apparente noncuranza. Le emozioni, che sono la nostra parte intangibile, necessitano degli oggetti per vincere la naturale tendenza umana a dimenticare, per questo alcuni esseri umani quando sono travolti da emozioni dolorose cercano conforto in maniera patologica nelle “cose”, finendo per accumularne fino a livelli allarmanti che finiscono per etichettarli come “spostati”, da coloro che li hanno delusi feriti o abbandonati. Alcuni, li puoi vedere per le strade o nei telefilm americani, trascinano con se certe cose che non sono affatto necessarie alla vita di strada ma alle quali hanno agganciato la parte residua di appartenenza al genere umano che il loro modo di vivere ha smesso di affermare pubblicamente. Li chiamiamo barboni, ma un tempo erano come noi. Un giorno, mentre ero alla finestra in pausa dal mio lavoro di parrucchiere, una di queste “barbone” mi chiese di potersi tagliare i capelli. Ricordo perfettamente l'odore che emanava dai suoi abiti sudici ma notai maggiormente il perfetto italiano con cui mi fece la domanda. Dovetti decidere in fretta e non essendo mio il negozio, ma essendolo invece il tempo di pausa, le dissi di aspettarmi li e la raggiunsi alla fermata dell'autobus che grazie al suo cattivo odore era diventata improvvisamente deserta. Mi raccontò che era stata una insegnante e che dopo aver cresciuto da sola l'unica figlia, finì per strada quando questa morì bambina,  in un incidente. Tra le cose che portava con se c'erano  animali di peluche che facevano capolino dai sacchi neri, consunti e magari senza un occhio o un braccio e non ci fu bisogno di chiederle spiegazione. Tagliai di netto il nodo che i suoi capelli grigi e sporchi avevano formato e che, a causa della trazione, le dava il mal di testa, con gli occhi velati di lacrime, tra gli sguardi disgustati delle persone che a casa loro chissà cosa “conservavano gelosamente”. “Ti posso pagare!” disse affermando la sua dignità “ no davvero” dissi io, “l'ho fatto volentieri, non doveva essere facile tenersi quel nodo..”. Lei aprì uno dei suoi sacchi e mi diede un orsetto senza naso, dopodiché, augurò a me buona fortuna. Sia che si mostri un eccessivo attaccamento o un totale distacco, le cose hanno una loro strana maniera di raggiungerci ed entrare a far parte della nostra vita, come testimonianza di un contatto avvenuto col mondo di qualcun altro. Puoi comprarle a un mercatino come piace a me, o vedertele arrivare per mano di un blasonato notaio, non importa, le “cose” ti troveranno e ti imporranno di dargli un qualche significato o ignorandole, permettere ad altri di farlo! Ci sono prima di noi e ci saranno dopo che ce ne saremo andati, perciò mi chiedo: perché proprio ora che possiamo averne di più, le nostre “cose”,  sembrano non avere più niente da raccontare?  Perché la storia di qualcun altro ci mette a disagio? Forse perché, c'era un tempo che non c'è più, in cui le cose erano poche e le storie delle cose degli altri, era un po anche nostra e non avevamo timore di essere “umani”. Ora scusatemi  ma ho un sacco di "cose" che non ho mai detto.

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