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Le cose di cui sono capace, di Alessandro Zannoni

Creato il 30 novembre 2011 da Fabry2010

Pubblicato da krauspenhaarf su novembre 30, 2011

Le cose di cui sono capace, di Alessandro Zannoni
recensione di Franz Krauspenhaar

Un sacco di anni fa, quasi venti, la Einaudi faceva filotto pieno con un’antologia. Ora, sappiamo bene che le antologie lasciano il tempo che trovano, forse servono solo per fare catalogo, insomma spesso sono un’accozzaglia di racconti di un’accozzaglia di scrittori tenuti insieme dal momento, dalla contingenza. Allora invece “Gioventù cannibale” aveva rivelato alcuni giovani talenti – pensiamo ad Aldo Nove, fra i vari – e insomma quella era stata un’operazione sostanzialmente  di scouting di una generazione di “giovani maturi” che avrebbe fatto parlare di sé. Ma chi era là dentro il vero “cannibale”? Beh, forse Massimiliano Governi, ora editor di Bompiani, appena uscito con Chi scrive muore, forse proprio nessuno. Di certo lo sarebbe Alessandro Zannoni se si dovesse restaurare l’operazione editoriale. Zannoni è un uomo di mare fatto e finito, ha la pellaccia del navigatore piratesco e la simpatia belmondesca del buon mascalzone, del Borsalino 2011. Ha vissuto a fondo, e glielo leggi nei microsolchi della faccia prima ancora che nei suoi libri. Sarebbe un noirista, cioè uno scrittore di noir, solo che a me piace pensarlo come uno scrittore nudo e  crudo, un uomo che viene dalla strada e poi “rilegge” la sua vita nello scriverla. Si è autoprodotto come Michelangelo Merisi, poi è approdato a Perdisapop, editore di qualità (sono stato anch’io tra le sue fila) e ha confezionato Biondo 901 che a mio parere è un racconto lungo perfetto, il suo capolavoro. Poi il felice (per l’esito) romanzo Imperfetto e ora, anzi da un po’, Le cose di cui sono capace, romanzo con titolo jimthompsoniano. Qui Zannoni fa un doppio salto mortale, perché fa la parodia del Jim Thompson insuperato genio del noir americano, e allo stesso tempo lo omaggia con un atto d’amore  sconfinato fatto di mimesi certosina; scarica le sue nevrosi doviziosamente, dando al Nick Corey io narrante (al secolo Nicola Coretti) sia la stigmate del violento del grande scrittore americano maestro di tutti, sia le proprie umane perdizioni anche solo pensate, anche solo costruite al tavolo da lavoro ma mettendoci, sul ripiano, fegato e animelle varie. Dunque abbiamo a che fare con un breve romanzo a più strati, a un’ opera metanarrativa di metagenere, nel quale il noir è la gabbia preparata con sadismo entro la quale lo scrittore di Sarzana infila dall’alto l’epos e i giganti e i nani e le batterie di fucilatori del cinema e della letteratura di genere, infila John Ford e John Fante, incrudelisce situazioni, pensieri e gergo, alla ricerca di una purezza assoluta, quella che in fondo non esiste se non nei libri d’avventura; attraverso il racconto di un uomo di legge alla deriva, che a differenza di quelli di Thompson si lascia andare proprio rotolandosi nel fango, quasi quello di Zannoni fosse l’ultimo di una genia di perdenti secchi sulla ruota della vita malvissuta, anzi della sfortuna, pronta ad autoeliminarsi, lo scrittore tenta di catturare il nucleo adamantino e mitico di un genere che non è più genere, che è bensì diventato, grande come una casa, citazione colta e spietata di se stesso. Dunque il romanzo è una sorta di canto divertente e disperato a un genere ormai morto, un canto d’amore e morte, un romanzo estremamente letterario e al contempo vitale.


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