3. Stupro – chi la fa, l’aspetti: la catarsi del rape and revenge
Hell Hath no Fury…
Il rape and revenge (letteralmente “stupro e vendetta”) è uno dei sottogeneri (e, per esteso, degli argomenti presenti in modo trasversale in pellicole di ogni genere e caratura) più discussi e attaccati dall’opinione pubblica, ma anche uno dei più persistenti poiché si presta efficacemente alla facile polemica che genera pubblicità gratuita e spesso di bassa lega. Il tema della vendetta è da sempre centrale nella narrazione filmica (si veda, ai giorni nostri, la produzione della Corea del Sud, in particolare la Trilogia della vendetta di Park-chan Wook), mentre la violenza sessuale è stata spesso lasciata fuori campo, sia per una forma di rispetto (o almeno così ci piace pensare) che, in primis, per più prosaici timori censori. Non è agevolissimo datare una vera e propria nascita del rape and revenge, forti tracce della tematica si possono ritrovare già nel capolavoro Bergmaniano La fontana della vergine (1960), e nel 1971 il grande Peckinpah turbò Hollywood con l’immenso Cane di paglia (Straw dogs), nel quale l’assalto sessuale non solo era mostrato, ma assumeva contorni moralmente ambigui. Nell’ambito dell’exploitation le barriere si fanno decisamente più ampie, con intenti che possono essere meramente provocatori o mirati al guadagno facile; in casi più rari, si uniscono anche intenzioni “alte”, messaggi che sovente vengono colti a distanza di tempo.
E’ stato questo il caso L’ultima casa a sinistra (Last house on the left, 1972), considerato da molti il primo film del filone, poco amato dallo stesso Craven ma pellicola di culto per stuoli di appassionati: liberamente ispirato al già citato La fontana della vergine di Bergman, che a sua volta traeva spunto da una ballata svedese del XIV secolo (Töre’s dotter i wänge), è opera anche fortemente simbolica, che mira a turbare profondamente lo spettatore piuttosto che puntare all’effettaccio o al disgusto (le scene splatter, pur se forti, non sono numerose). Il film, che godette di un budget di ben 90.000 dollari, venne bandito in più paesi e Craven, insieme al produttore Sean Cunningham, fu costretto a operare diversi tagli: tuttavia, il lavoro era già stato pesantemente rimaneggiato dagli esercenti delle sale, che avevano arbitrariamente eliminato interi segmenti di pellicola da quello che era il montaggio originario di 90 minuti. La trama, molto semplice, narra di Mari (Sandra Peabody), ragazza di buona famiglia ma dallo spirito ribelle, che esce con l’amica Phyllis (Lucy Grantham) per andare a un concerto: si imbatteranno in una gang di evasi, con a capo Krug Stillo (un grandissimo David Hess, anche autore delle musiche), che le sottoporranno a ogni genere di sevizie per poi ucciderle. Stillo e soci , per pura coincidenza, capiteranno in casa dei genitori di Mari, i quali, una volta compreso l’accaduto, metteranno in atto una feroce vendetta. Il film ha taglio documentaristico, immagini quasi sgranate, assia simili ai reportage del Vietnam, un visivo crudo e senza filtri, e ciò era esattamente l’effetto voluto da Craven, una crudezza a cui si contrappongono musiche spesso malinconiche, come la splendida Wait for the rain, composta e cantata dallo stesso Hess. Ciò che vediamo sullo schermo è, nelle parole dello stesso regista, figlio legittimo dell’incubo del Vietnam, trasformatosi in un grido di protesta contro le sue efferatezze, utilizzando la violenza ma dandole un contesto, dei volti, dei personaggi: “L’ultima casa a sinistra è stata una mia reazione a tutta la violenza che ci circondava, in particolar modo la guerra nel Vietnam. Ho preso parte a molte manifestazioni di protesta contro la guerra, e volevo mostrare come la violenza infetti le persone. Il film spazzò via tutti i cliché della violenza al cinema… Io ne feci una cosa dolorosa, protratta, scioccante – e molto umana. Così come resi umani coloro che la praticavano” .Un’umanità anche ironicamente mitizzata, come si denota dall’ emblematica presentazione del personaggio di Krug Stillo, che avviene principalmente a livello sonoro (il giornale radio che dà la notizia della fuga dei criminali): “Krug Stillo, che stava scontando l’ergastolo per il triplice massacro, nel 1966, di un prete e due suore”. Biglietto da visita ironico, come si diceva, nel suo non andare molto per il sottile nell’associazione tra il personaggio e il Male: d’altronde, Krug incarna l’altra faccia del Flower Power, di quella che, come dice la madre di Mari, “dovrebbe essere la generazione dell’Amore”. I riferimenti a Manson sono stati immediati ma non sono così fondamentali nel film, per quanto vi siano allusioni alla Family: è altro ciò che conta, ossia lo scontro di due nuclei famigliari, i reietti e quelli “perbene”, e questi ultimi non si rivelano di certo migliori dei primi. La forza de L’ultima casa a sinistra, come del resto di molti film dell’epoca, si ritrova proprio nel background sociale, politico e culturale che si porta dietro ma soprattutto in come è stato in grado di farlo trapelare, impregnando le immagini di un potenziale sadico e disturbante che resta intatto a distanza di oltre quarant’anni. La scena in cui Phyllis viene obbligata a farsi la pipì addosso, giusto per fare un esempio, mette lo spettatore in uno stato di profondo disagio, ben più di lunghe sequenze di tortura: è l’umiliazione, la sottomissione forzata, tutto questo riesce a toccare corde nascoste e dolorose.
Negli anni immediatamente successivi, il rape and revenge vede avvicendarsi una manciata di titoli controversi e dagli esiti alterni: ricordiamo Thriller (1973), di Alex Fridolonski, pseudonimo dello svedese Bo Arne Vibenius (in passato assistente di Bergman), film proiettato al Festival di Cannes dove, prevedibilmente, suscitò scalpore, e col quale il notevole L’Angelo della Vendetta (Ms 45) di Abel Ferrara, del 1981, presenta non poche analogie, oppure gli assai trascurabili Black alley cats e Rape squad, entrambi del 1974.
Quando ci si trova di fronte al remake del film di Craven, realizzato nel 2009 da Dennis Iliadis, ci si rende conto di quanto rifare un film così non solo sia stato inutile, ma anche del tutto fuori luogo: il goffo tentativo di attualizzare la vicenda si riduce a un’imitazione macchiettistica, una rielaborazione con cambiamenti apportati per far contento il nuovo pubblico, rendendo l’elemento violento più urlato, meno sottile, privandolo dei suoi sottotesti, e al tempo stesso limando ed edulcorando: Krug è un teppista prestante e muscoloso, il figlio Junior è belloccio e non tossicodipendente, quello che era il viscido personaggio di Weasel è qui ridotto a una nullità e si potrebbe continuare all’infinito. Si puntano i riflettori sulla sequenza dello stupro strizzando l’occhio agli incassi facili, e le psicologie dei personaggi sono tagliate con l’accetta. La magnifica sequenza dell’uccisione di Mari nel lago, inesorabile, macabra e poetica, qui diventa una scena action scandita da uno score simile a quello de Lo squalo: già questo è sufficiente a marcare una linea netta tra due modi di fare cinema che si pongono completamente agli antipodi, il primo incurante delle esigenze di mercato, il secondo al totale servizio di queste.
Il solito prodotto/pretesto che supplisce alla mancanza di idee, fa gonfiare i botteghini e mette in campo la becera scusa di far scoprire alle nuove generazioni il cinema “dei bei tempi che furono”. Si sa che oggi si vive di remake, ma vi sono territori filmici più delicati di altri, veri e propri campi minati in cui muoversi è rischioso. L’ultima casa a sinistra versione 2009 ha riscosso un buon successo in sala, com’era prevedibile, poiché ha offerto ciò che una buona fetta di pubblico vuole vedere: l’orrore edulcorato, rassicurante, ben lontano dal cinismo dell’illustre predecessore.
Più violenza forse, ma mediata, teste sfondate in stile videogame, elementi che chiaramente comunicano che tutto ciò che si sta guardando è finto. E’ questa, la fondamentale differenza: il cruento su grande schermo a cui si assisteva negli anni ‘70/’80 parlava al pubblico in modo più semplice e diretto, indubbiamente più crudo, ma anche più vicino al vero. Gli orrori su celluloide divenivano metafora di quelli reali, della ferita sanguinante del Vietnam negli States e delle stragi in Italia, non vi erano tamponi o barriere, il pubblico era, paradossalmente, meno ingenuo e più smaliziato poiché attorniato dalla paura tangibile. Tra gli eventi sociopolitici che spinsero Craven a girare L’ultima casa a sinistra vi fu la sparatoria della Kent State University, in Ohio, durante la quale persero la vita quattro studenti: il 4 Maggio del 1970 la Guardia Nazionale aprì il fuoco sugli universitari che stavano protestando contro l’invasione americana in Cambogia, ordinata da Richard Nixon. In italia, il terrorismo e gli assassini politici avevano creato un clima di paura reale, e di perenne minaccia: la ribellione stava assumendo sempre più i contorni di una vera e propria guerra, con le forze conservatrici che al fuoco rispondevano con violenza ancora maggiore (le stragi di stato). Inoltre, la rivoluzione sessuale che si stava diffondendo sia in Europa che negli States fu punto di svolta importantissimo per la società del tempo, per molti versi ancora ancorata a una morale retrograda, e questa liberalizzazione dei costumi venne avvertita, da molti, come destabilizzante, nel suo far cadere le barriere morali, minando così certezze che parevano incrollabili.Oggi, si tende a credere che il fruitore di cinema abbia già visto tutto e ormai non sia più toccato da nulla, e in parte è vero, se si tiene conto del fattore assuefazione; d’altro canto, ciò che viene offerto nei circuiti delle sale è ripulito, mitigato, addomesticato. Un altro punto fondamentale è la diminuizione dell’empatia: l’orrore ci circonda ancora, forse anche più di ieri, ma ci sentiamo distanti da esso, muovendoci nel nostro piccolo spazio individuale senza prestare troppa attenzione a ciò che accade là fuori. E’ l’insieme di questi elementi a far sì che l’orribile di oggi lo sia un po’ meno, e che quando venga spinto il piede sull’accelleratore dell’eccesso si sconfini dal mercato convenzionale, finendo in territori di nicchia.
Nel 1975, L’ultimo treno della notte di Aldo Lado offre un esempio egregio di “stupro e vendetta” nel panorama di genere italiano: con una struttura vicina al film di Craven (le due ragazze in viaggio, la gang in cui è presente una donna, la vendetta operata dal padre di una delle vittime dopo che i murderers sono approdati in casa in cerca di soccorso), riesce ad affrancarsene del tutto, con sfoggio di stile e personalità propri. L’opera di Lado è, se possibile, ancora più disturbante, indugiando in modo lento, introducendo elementi morbosi (il voyeur Franco Fabrizi, che a fine film fa una chimata anonima alla polizia) e senza stemperare con siparietti inutili (le gag dei poliziotti in Last house…), durissima dall’inizio alla fine. Anche qui, come in Craven, è presente una figura femminile nella gang, interpretata da Macha Meril, donna raffinata che si aggrega ai due balordi (da ricordare Blackie, interpretato da Flavio Bucci): mentre la Sadie di Krug e soci era parte attiva, outsider schizzata e per certi versi mascolinizzata, in Lado l’elemento femmineo è assai più complesso e ambiguo. La Meril è spettatrice delle violenze, aizza i due, provoca e umilia le vittime, ma non si sporca mai le mani, mentre in realtà rappresenta la parte peggiore del gruppo. Quando giunge la vendetta da parte del padre di Lisa (Enrico Maria Salerno), la donna incolpa i suoi complici, li accusa di averla plagiata, venendo dunque risparmiata: lei è credibile, poiché con i suoi abiti eleganti e i suoi modi gentili rappresenta la buona borghesia, la stessa della famiglia Stradi; il professore dunque la vede come una sua simile. Anche in questo caso, dunque, si va ben oltre l’impatto visivo forte, con chiavi di lettura che offrono più di uno spunto di riflessione.Sempre dai territori italici arriva il pregevolissimo Autostop rosso sangue (1977) di Pasquale Festa Campanile, tratto da un romanzo di Peter Kane e che vede nuovamente David Hess nelle vesti di villain, autostoppista in realtà criminale psicopatico in fuga. Walter Mancini (Franco Nero) e la moglie Eve (Corinne Cléry) non sono esattamente quel che si può definire una coppia felice: lui è un giornalista alcoolizzato, violento e abusivo verso la moglie, che è figlia del suo capo. Mancini è un fallito ed Eve è frustrata, sottomessa ma implosiva nel permettere che il marito la maltratti a proprio piacimento. Autostop Rosso Sangue è rape and revenge assai atipico poiché non possiede, in realtà, gli elementi fondamentali del filone in senso stretto: Eve è vittima dello stupro da parte di Adam (Hess) ma il suo atteggiamento è a metà tra il consenso e la provocazione verso il marito, che assiste impotente alla scena. Nel finale, c’è una vendetta profondamente diversa da quella vista finora in film di questa tipologia: Campanile realizza un’opera cinica, anche spietata, ricca di sfumature e ambiguità, che punta sul rovesciamento dei canoni classici del genere.
Nel 1978, giunge nelle sale quello che è considerato il film forse più rappresentativo del filone: Non violentate Jennifer (Day of the woman, meglio conosciuto come I spit on your grave), diretto da Meir Zarchi, che segue alla lettera lo schema narrativo tipico del sottogenere. Interpretata da Camille Keaton (già vista in Cosa avete fatto a Solange?, di Massimo Dallamno, 1972, nel ruolo della ragazza del titolo), insieme a un gruppetto di attori sconosciuti, l’opera di Zarchi è ancora oggi oggetto di dibattito, tra detrattori che la considerano gratuita e di poco conto, ed estimatori che le hanno attribuito chiavi di lettura più elevate e complesse. Censurata e bandita in molti Paesi con l’accusa di glorificazione dello stupro è stata, per contro, rivalutata da critici come Michael Kaminski, che nell’articolo “Is I spit on your grave really a misunderstood feminist film?”, apparso sul sito Obsessed with film, ne evidenzia il significato di denuncia e reazione alla violenza sulle donne; la docente (e femminista) Carol J. Clover, nel suo interessante saggio Men, women and chainsaws: Gender in the modern horror film (Princeton University Press, 1993), sottolinea come il film porti lo spettatore maschio a identificarsi con Jennifer e non con il carnefice, mettendo anche in luce il debito della pellicola di Zarchi verso Un tranquillo week-end di paura di Boorman. Al di là dei pareri contrastanti, quel su cui non si può discutere è il potenziale disturbante di I spit on your grave: la sequenza della violenza, della durata di circa trenta minuti (in seguito decurtati), è francamente intollerabile; la catarsi vendicativa è fragile, poiché si rischia di tornare al trito discorso sulla vittima che diventa peggiore del carnefice. L’ultima inquadratura, che vede Jennifer abbozzare mezzo sorriso, dopo aver sterminato i suoi aggressori, può essere eloquente in tal senso: la vendetta dopotutto, è una magra soddisfazione.
Alcune sequenze restano indubbiamente notevoli, come la “punizione” di Johnny nella vasca da bagno, sensualmente macabra, oppure il gesto della donna che subito dopo le sevizie risistema le pagine del proprio libro, nel voler rimettere insieme la sua integrità di persona. Il critico statunitense Roger Ebert stroncò il film, definendolo “uno spregevole sacco di spazzatura” (“a vile bag of garbage”); ciò che è interessante notare, leggendo la recensione di Ebert, è quanto il suo parere fosse senza dubbio condizionato dalle reazioni del pubblico in sala: dallo spettatore di sesso maschile che esortava gli stupratori a “darle ciò che merita” fino alla ragazza che urlava “sorella, tagliaglielo!”. E’ stato questo, forse più del film stesso, a spaventare il critico, ossia di come le immagini riuscissero a far uscire fuori il peggio da coloro che le stavano guardando.
La reazione del pubblico è diventata, per contro, quasi una giustificazione stando alle parole del regista del remake (2010), Steven Monroe: “A chiunque accada una cosa simile, o a chiunque sia vicino alla vittima di una cosa del genere, è inevitabile che passi per la testa il pensiero: io farei questo a chi ha commesso un tale crimine. Dunque, credo che la vendetta sia una grande liberazione emotiva per queste persone dopo che hanno assistito a ciò che gli uomini fanno alla protagonista” . Un punto di vista “di pancia” ma in ogni caso assai discutibile, specie se visto nel contesto di una società che sta diventando sempre più forcaiola e che spesso e volentieri torna a metodi triviali come il linciaggio o la giustizia privata. Ciò che disgustava Ebert (e molti altri) trent’anni fa è ora dunque visto non solo come accettabile, ma anche come giusto, questa è una differenza fondamentale. Il remake segue i meccanismi già visti ne L’Ultima Casa a Sinistra e molti altri rifacimenti, ossia una ripulitura visiva e un moralismo di fondo, a cui si aggiunge un dilungarsi della parte dedicata alle sevizie, riducendo quella sulla revenge (ma non doveva essere “liberatoria”?). Rape and revenge che si tramuta in torture porn, lo show della tortura, un non-genere che oggi rappresenta gran parte della produzione horror mainstream finto-scioccante: in poche parole, un pizzicotto spacciato per un pugno in pancia.
Con La casa sperduta nel parco (1980) di Ruggero Deodato, si torna in terreno nostrano, dunque a una concezione di “stupro e vendetta” al di fuori degli schemi: ancora una volta David Hess nei panni di Alex, che violenta una giovane in auto a inizio film (moglie dell’attore nella vita), e che, insieme a Ricky, il suo amico “non troppo sveglio” (Giovanni Lombardo Radice), viene invitato da un gruppo di ragazzi bene a una festa in una villa. Il cerchio si chiude nel finale, ma è il plot centrale che conta, le dinamiche tra i personaggi, i due outsiders che tengono sotto scacco i giovani ricchi e viziati: lotta di classe e violenza si mescolano, dando vita a un’altra ottima opera, un gioco del gatto col topo, nel quale spicca il rapporto ambiguo tra Alex e Ricky, dominante e dominato, sadico e masochista.
Sotto accusa (The accused, 1988), di Jonathan Kaplan, per quanto ovviamente esuli dai confini dell’extreme cinema, può essere anch’esso considerato rape and revenge in senso ampio: la rivalsa, infatti, non avviene tramite la forza bruta bensì per vie legali. Kaplan è cresciuto registicamente nella factory di Roger Corman (esordì con l’exploitation Night call nurses, 1972), dunque conosce i meccanismi di una certa cinematografia; Sotto accusa sollevò pesanti polemiche e giudizi aspri, dal rendere patinata la violenza fino alla sua spettacolarizzazione. Ciò che lo rende realmente diverso, oltre al suo indubbio valore filmico, è che in questo caso la protagonista non è una ragazza innocente, vittima incolpevole, bensì una donna spregiudicata, provocante, che beve e fa uso di stupefacenti, il che spiazzò completamente il pubblico. L’ambiguità della vittima è stata la chiave di volta del film, e la maestria di Kaplan si ritrova nell’essere stato in grado di disgustare totalmente lo spettatore davanti allo stupro, facendo sparire ogni possibile giudizio verso “l’accusata”: la lunga sequenza della violenza carnale è insostenibile, ma è stata proprio quella ad aver attirato così tanti spettatori nelle sale, nonostante i tagli operati dalla censura.
Chiara Pani
Nella prossima puntata: il fenomeno Guinea Pigs