1. La Morte – Show me the death please: fake snuff e necrofiliaco voyeurismo
La messa in scena della morte su grande schermo risale agli albori della cinematografia: da filmati reali come Electrocuting an elephant (1903) di Thomas Edison, a simulazioni per l’epoca estremamente realistiche: The execution of Mary, Queen of Scots (1895) di Alfred Clark, che metteva in scena la decapitazione di Maria Stuarda, era così verosimile al punto da spingere molti a pensare che l’attrice, sostituita con un manichino nel momento clou, fosse stata uccisa sul serio. Del resto, la Nera Mietitrice, essendo paura per eccellenza, di conseguenza è stata continuamente esorcizzata nelle arti, di volta in volta celebrata o dissacrata. Il fascino che Thanatos esercita sull’uomo è da sempre reso con un paragone ormai tanto scontato quanto eloquente, ossia l’incidente in autostrada, davanti al quale la maggioranza degli automobilisti rallenta, si volta per uno sguardo fugace, poi prosegue; alcuni, in numero minore rispetto ai primi, si fermano, scendono e vanno a vedere, per assistere a uno “spettacolo” tanto macabro quanto, evidentemente, attraente ai loro occhi. Il più delle volte è curiosità morbosa ma viene spontaneo chiedersi quanti di loro vorrebbero sollevare il lenzuolo dal cadavere: è dunque metafora che calza sempre perfettamente per i fruitori di un certo tipo di visivo, quello che mostra, o il più delle volte finge di mostrare, la morte “ per davvero”.
Last house on dead end street (1973), che nel titolo richiama da vicino il precedente Last house on the left di Wes Craven (come vedremo, film di tutt’altro tipo e fattura), può essere considerato il precursore dei finti snuff: diretto da Victor Janos, pseudonimo di Roger Watkins, anche sceneggiatore è interprete principale, è film oscuro e fortemente disagevole, un low-budget allucinato e a tratti teatrale. Terry Hawkins (Watkins), appena uscito di prigione, vuole darsi al cinema e dopo aver fallito come regista porno, capisce che il pubblico vuole qualcosa in più: inizia dunque a realizzare snuff movies. Girata in un capannone abbandonato, è pellicola malsana e sadica, divenuta a suo modo di culto; nel 2000, su un forum apparvero dei post di un utente che sosteneva di essere Watkins, raccontando di aver girato il film sotto anfetamine e che gran parte del budget, ridottissimo, venne speso in droghe. Il regista è morto nel 2007. Last house on dead end street è interessante proprio in quanto profetico: in tempi non ancora sospetti, Watkins aveva già compreso il potenziale sinistro della vera morte su pellicola, e cercò di simularla, con risultati crudamente efficaci.
E’ il 1976 quando nelle sale americane vede la luce Snuff di Michael e Roberta Findlay e Horacio Fredriksson, operazione tanto astuta dal punto di vista pubblicitario quanto cinematograficamente scadente; il film è costituito in gran parte da una pellicola girata in Argentina dai coniugi Findlay nel 1971 e originariamente intitolata Slaughter, imperniata sulle gesta di una setta alla Manson Family, realizzata male e recitata peggio. Il produttore e distributore Allan Shackleton tenne Slaughter nel cassetto per quattro anni, finché, nel 1975, la notizia letta sul giornale a proposito di snuff movies girati in Sud America gli diede un’idea: girare un finale posticcio da aggiungere al film in cui mostrare una supposta morte reale. Al termine di 80, noiosissimi minuti di z-movie con donne bikers e satanismo da quattro soldi, vi è una scena di raccordo e appare un set, che mostra la conclusione delle riprese; regista e crew si accaniscono su una delle attrici, con torture varie, sbudellamento finale e voce fuori campo “stiamo terminando il nastro!” per rendere il tutto maggiormente credibile. Snuff venne distribuito in sala, con la tagline : “A film that could only be made in South America, where life is CHEAP!” (“Un film che poteva essere fatto soltanto in Sud America dove la vita NON HA VALORE!”). Shackleton usò una strategia di marketing furba ed efficace, che faceva leva sulla curiosità del pubblico verso gli snuff, argomento di cui i media iniziavano a parlare proprio in quel periodo; gonfiò oltremodo l’eco scandalistico, organizzando finti picchetti davanti alle sale, ai quali si aggiunsero quelli reali dell’associazione Women Against Pornography. Anche gli ambienti intellettuali si levarono contro il film e il tutto culminò in un’indagine condotta dal procuratore distrettuale di New York; Shackleton e soci furono dunque costretti a dimostrare che l’attrice era viva e vegeta (come accadde a Ruggero Deodato quattro anni più tardi), il film venne ritirato e bloccato per anni dalla censura (la VHS americana del 1982 sparì immediatamente dalla circolazione), per tornare disponibile in DVD uncut solo in tempi recenti.
Il film incassò 66.000 dollari durante la prima settimana di proiezione nella città di New York, surclassando titoli come Qualcuno volò sul nido del cuculo, a dimostrare che le persone volevano “guardare l’inguardabile”; rivedendolo oggi, si stenta a comprendere come qualcuno possa esserci cascato, visto che gli effetti erano palesemente fasulli. Vero è che sia l’auto-suggestione (e la suggestione della campagna pubblicitaria in primis), sia la potenza del grande schermo potevano rendere credibile ciò che non lo era. La sala buia, la convinzione di assistere a uno “spettacolo inaudito” e le immagini full-size hanno sempre giocato un ruolo cardine nella percezione di ciò che si ha di fronte; l’avvento dell’home video, dunque la fruizione domestica su apparecchi televisivi, con le luci accese, senza il silenzio rituale dello spazio/cinema, ha stemperato di molto il potere suggestivo del filmico, diminuendo di conseguenza anche l’empatia dello spettatore. Questo è uno dei tanti elementi che possono fornire una spiegazione alla diffusione di pellicole a tasso sempre più alto di contenuti cruenti: si può parlare di maggior distacco da parte del pubblico dovuto per l’appunto al differente contesto in cui visiona un determinato film. Se assistere a sequenze violente sullo schermo di una sala ha indubbiamente un impatto di una certa entità, esso diminuisce quando si è nel rassicurante spazio della propria casa, con la possibilità di mettere in pausa o fare quattro chiacchiere se ci si trova in compagnia. Due modi di fruizione, dunque, del tutto differenti.
Lo charme mortuario ritorna nel 1978 con Le Facce della Morte (Faces of death), di Conan LeCilaire (pseudonimo di John Alan Schwartz), tentativo di riportare in auge il filone dei mondo movies in chiave tanatologica, tramutatosi in ciò che viene definito shockumentary: una serie di morti violente presentate da un host, il Dr. Gröss (Michael Carr), finto coroner che si rivolge in modo diretto agli spettatori. Gran parte del contenuto è ovviamente finto (l’esecuzione capitale su una sedia elettrica, un sacrificio umano, e via discorrendo), c’è molto stock footage da documentari e notiziari, e uccisioni di animali, purtroppo reali, così come sono vere le immagini dei resti di un ciclista investito, prese da un telegiornale. Le facce della morte ebbe tre sequel, un making of, e un buon numero di imitazioni, in seguito al successo a dir poco eclatante che riscosse all’epoca. L’edizione italiana venne curata da Mario Morra, con un montaggio diverso rispetto a quella statunitense, e nel sequel Le facce della morte 2 fu Renato Polselli a prestare la voce per il commento. Negli epigoni successivi la voce off sparirà, sostituita dalla musica come in Faces of Death 2 (1994), in cui alle immagini si accompagna un’incessante soundtrack death metal. Che piaccia o meno, Faces of death è considerato film di grande influenza, e utilizzò a proprio vantaggio pubblicitario il ban ricevuto in numerosi Paesi (secondo la tagline, ben 46) lasciando una traccia nell’immaginario collettivo. Il passo verso siti come Rotten.com è stato breve, con la differenza che nel caso del famoso portale americano ciò che si vede è vero e reale, non simulato. Faces of death è in realtà estremamente furbo, nel suo essere piuttosto cerchiobottista: mescola pretese pseudo-ecologiste, indignazione verso la pena di morte a voyeurismo spicciolo. In poche parole, e come sempre accade, dà al pubblico ciò che vuole, addolcendo la pillola con una canzone soft (Life, di Bruce Scott) e scene rilassanti nel finale, dopo 105 minuti di atrocità per lo più studiate a tavolino.
Da sempre l’uomo ha cercato di esorcizzare la propria paura della morte, a partire dai rituali tribali, passando per la fede in una qualche forza divina fino ad arrivare a improbabili ipotesi di ibernazione. Assistere alle uccisioni su schermo può avere, tra le altre cose, una funzione rassicurante nel dare allo spettatore una certa dose di potere: non si sente passivo, poiché scatta un meccanismo di difesa e in un certo qual modo diventa parte attiva di ciò che vede. L’essere voyeur gli fa prendere in mano le redini, e per qualche secondo domina ciò a cui assiste: entra all’interno del processo di morte che ha davanti come se vi interagisse, rendendolo così meno minaccioso.
La curiosità verso la morte rimane, ed è più diffusa di quanto si sia disposti a credere: per tornare alla metafora iniziale, anche coloro che non scendono dall’auto davanti all’incidente hanno probabilmente pensato di farlo, almeno una volta.
2.Antropofagia – dalle necrofile ceneri dei mondo movies agli urgenti appetiti dei cannibalici
“It’s lonely being a cannibal. Tough making friends.”
(Ravenous – L’insaziabile, di Antonia Bird, 1999)
Alcuni filoni della cinematografia dell’estremo non hanno resistito all’usura del tempo, spegnendosi nell’arco di pochi anni: da quello delle “donne in gabbia” (women in prison, nazi-erotici e conventuali) fino a uno dei più discussi, ossia il genere dei mondo movies, pseudo-documentari (in gran parte fasulli) in cui venivano mostrate atrocità assortite provenienti da varie parti del mondo (per l’appunto). Ne è precursore Mondo cane (1962), di Gualtiero Jacopetti, Franco Prosperi e Paolo Cavara: quest’ultimo, in seguito si staccò dal duo e girò l’ottimo L’Occhio selvaggio (1967), in cui non solo attaccava l’operato di registi come lo stesso Jacopetti (da un punto di vista per lo più etico) ma tentava di fornire un’ottica teorica su questo genere di pellicole mondo e su come venivano recepite dal pubblico. Il film di Cavara, spesso definito un “anti-mondo”, è di grande interesse poiché realizzato da un regista che aveva visto l’ambiente dall’interno; sebbene il protagonista, Paolo (Philippe Leroy) sia simbolo estremizzato del cineasta cinico pronto a saltare in aria pur di fare delle riprese uniche, l’opera resta unica nel suo genere nel donare uno sguardo feroce su una tipologia filmica che attirava una moltitudine di spettatori.Mondo cane fu spesso liquidato come una mera sequenza di efferatezze a uso e consumo del solito “spettatore guardone”, sottolineate dall’ingombrante voce off di Jacopetti, nella sua ambigua retorica pseudo-sociologica (o con pretese antropologiche). In realtà, al di là di facili rivalutazioni, e cercando di andare oltre la superficie, l’opera è meno semplicistica di quanto possa apparire: Jacopetti era giornalista di rango, che arrivava dalle redazioni del Corriere della Sera e l’Espresso, e figura vicinissima a Indro Montanelli. Il taglio didascalico da cinegiornale era elemento intenzionale, voluto, e la voce off dell’autore sottolinea il visivo con commenti dal contenuto ideologico spesso discutibile, al punto che dalla critica non tardarono a giungere accuse di razzismo. Mondo cane, tecnicamente, è film di ottima fattura, realizzato in maniera efficace e che trova nel montaggio (a cura dello stesso Jacopetti) uno dei suoi punti di forza. La pellicola fu presentata al Festival di Cannes, dove vinse un premio per la miglior produzione (la Cineriz), e si guadagnò una nomination all’Oscar per il tema musicale, More, di Nino Oliviero e Riz Ortolani, brano che ricorda da vicino il magnifico main theme di Cannibal holocaust (1980), sempre firmato dal grande Ortolani. Tra gli altri film dei due registi, i successivi Africa addio (1966 ), sul processo di decolonizzazione, e Addio zio Tom (1971), che si dichiara apertamente come docu-fiction sull’America schiavista dell’800.
Dalle ceneri dei mondo nacque uno dei sottogeneri più importanti a cavallo degli anni ’70 e ’80: l’italico cannibal movie, che vide ne Il paese del sesso selvaggio di Umberto Lenzi (1972) il film precursore e nel già citato Cannibal holocaust, di Deodato, il titolo più rappresentativo nonché di maggior valore. La pellicola di Lenzi, in realtà, contiene una sola scena di antropofagia, essendo più che altro concepita come narrazione avventurosa, vicina alla trama di Un uomo chiamato cavallo (A man called horse, 1970, di Elliot Silverstein); il regista si darà al cannibalico “puro” con i successivi Mangiati vivi! (1980) (liberamente ispirato al suicidio di massa di Jonestown, in Guyana, a opera del predicatore Jim Jones e della sua setta) e Cannibal ferox (1981). Il primo mescola il girato a sequenze riciclate da altri film (tra cui Il paese del sesso selvaggio), e mostra gran parte degli ingredienti-base del cannibalico: un erotismo esotico memore dei vari Emmanuelle con la Gemser, violenza reale su animali, exploitation in tutto e per tutto; manca il discorso sui “bianchi come i veri selvaggi”, che tornerà in molti altri film similari. Cannibal ferox è per molti versi più riuscito, maggiormente truculento, e in un certo senso ironico nel partire dall’ingenuo assunto della protagonista, ciò che la spinge al viaggio nella giungla, ossia che “il cannibalismo non esiste”; come prevedibile, Cannibal ferox venne bandito in più paesi (ben 31), assurgendo così a pellicola di culto, poiché com’è noto, ciò che viene proibito diventa inevitabilmente attraente. Primo cannibal movie vero e proprio è Ultimo mondo cannibale (1977), di Deodato, che resta tra gli esempi più mirabili del filone: atipico, documentaristico, quasi claustrofobico nel suo essere ambientato in gran parte all’interno di una grotta, possiede una cifra stilistica che lo discosta dalle altre pellicole sull’antropofagia, rendendolo per certi versi un film “non da grande pubblico”. Incentrato in gran parte sull’ottima interpretazione dell’attore teatrale Massimo Foschi, prigioniero di una tribù di mangiatori di uomini, e con pochi dialoghi (il protagonista durante la prigionia spesso parla da solo, prima di ritrovare il compagno di viaggio Rolf, interpretato da Ivan Rassimov), mostra appieno l’abilità registica di Deodato, in sequenze come il pasto cannibale a base del corpo di Me Me Lai, ritualistico in modo raffinato. Nel 1978 troviamo La montagna del dio cannibale di Sergio Martino, primo cannibal movie con un plot vero e proprio, a differenza dei predecessori che si basavano più che altro su concetti o rimandi.
Cannibal holocaust di Ruggero Deodato rappresenta un turning point nel cinema dei mangiatori di uomini e ne è il titolo più emblematico; l’eredità dei mondo movies è ravvisabile non soltanto nelle location esotice e relativi contesti tribali, già visti in Lenzi, ma in primo luogo nel continuo interscambio tra realtà e finzione, previa una differenza di intenzioni: mentre registi come Jacopetti e Prosperi mostravano fiction tentando di farla apparire reale, spacciandola per tale, Deodato allestisce un vero “film nel film”, inserendo nel diegetico la vicenda dei documentaristi tramite filmati che il pubblico visiona insieme al Professor Monroe (Robert Kerman, già star del porno) come se fosse realmente accaduta. E si spinge oltre: con una trovata di marketing pubblicitario che anticipava di gran lunga (e assai più genialmente) i vari found footage e mockumentaries alla Blair witch project, i quattro attori che nel film finivano divorati dai cannibali dovettero firmare un contratto che li vincolava a scomparire dalle scene per un anno, in modo da far credere che la loro morte fosse stata reale. Scelta che costò cara al regista, costretto a far comparire in tribunale gli attori in seguito a un’accusa di omicidio, poiché il risultato fu talmente credibile che si pensò che i personaggi fossero stati uccisi sul serio. Sono ormai arcinote le varie vicissitudini legate al film, dalle minacce per sospetti maltrattamenti agli indios fino alla valanga di divieti e censure. Non si può non sottolineare, per l’ennesima volta, il valore tecnico della pellicola, poiché Deodato sa come usare una macchina da presa e riesce a far parlare le immagini, che da sole comunicano molto di più del famoso commento finale “chi sono i veri cannibali?”. Le parole sono quasi inutili, poiché ciò che vediamo è di una tale potenza che giunge in modo diretto, senza bisogno di intermediazioni, e il già citato score di Riz Ortolani, melodico e sognante, è contrappunto perfetto a un film che, per quanto facente parte di un filone ben preciso, resta unico nel suo genere.
Il cannibalico italiano conobbe il suo massimo fulgore dal 1977 al 1981, per poi spegnersi, rimpiazzato da modelli orrifici che erano ormai cambiati in base al differente contesto sociale (gli ’80 sono gli anni del ritrovato benessere e dello yuppismo) e ai gusti del pubblico, con qualche ritorno sporadico, ad esempio i due trascurabili film di Bruno Mattei realizzati nel 2004, Nella terra dei cannibali e Mondo cannibale. Il regista statunitense Eli Roth ha di recente presentato, al Festival di Toronto, The green inferno (citazione del titolo della seconda parte del film di Deodato), non un remake di Cannibal holocaust bensì omaggio (nelle intenzioni) al genere, che ha riscosso la prevedibile serie di pareri controversi: del resto, sono operazioni per le quali vale il medesimo discorso dei rifacimenti, ossia la differenza di contesto, una sorta di “fuori tempo e luogo”, una forzatura sotto molti punti di vista.
Andando oltre il genere puramente cannibalico e arrivando ai giorni nostri, l’antropofagia nel cinema estremo odierno trova posto in pellicole di nicchia, per lo più sconosciute, poiché è stata sdoganata ampiamente nel mainstream, quindi non vi è un reale bisogno di quell’ulteriore “valvola di sfogo” che il filmico al limite ha sempre rappresentato. Si possono citare un paio di pellicole assai pregevoli, come lo splendido L’insaziabile (Ravenous, 1999), di Antonia Bird, o Mangiata viva (sic!) (Cannibal love aka Trouble every day, 2001 ) di Claire Denis, con Beatrice Dalle e Vincent Gallo, in cui il cibarsi di carne umana è conseguenza di cure per l’aumento della libido, ma si esce dai confini dell’estremo, per rimanere in lidi maggiormente simbolici o convenzionali.
Il cannibalismo viene spesso ritrovato in ritratti di serial killer, mai nulla di particolarmente incisivo, eccezion fatta per il corto Roadkill: the last days of John Martin (2004), di Jim Van Bebber, raffigurazione tanto cruda quanto efficace di un’umana degenerazione e per il germanico Cannibal (2006) di Marian Dora. Ispirato alla figura di Armin Meiwes, il cosiddetto “cannibale di Rohtenburg”, che trovò la sua consenziente vittima in seguito a un annuncio messo sul web, è film che non risparmia nulla allo spettatore: assai realistico nella sua crudezza, espone le fasi del pasto antropofagico in ogni dettaglio, con meticolosità quasi morbosa e una buona dose di coraggio.
L’uomo che mangia un altro uomo è concetto filmico che ha subito una forte trasformazione: il cannibale odierno , a differenza dei “selvaggi” anni ‘70/80, separati in modo manicheo dai “bianchi civilizzati” dunque più rassicuranti poiché lontani (se non si va nelle loro terre, non si corre pericolo), ora è inserito nella società, mischiato tra noi, spesso altolocato e raffinato, minaccia onnipresente e fisicamente prossima.
Hannibal Lecter è personaggio creato dallo scrittore statunitense Tomas Harris e comparso per la prima volta nel romanzo I delitti della terza luna (Red dragon, 1981), da cui è stato tratto dapprima lo splendido Manhunter (1986) diretto da Michael Mann e nel 2002 lo scadente Red dragon di Brett Ratner. Inutile dirlo, la figura dello psichiatra cannibale è stata consacrata al successo mondiale dalla trasposizione filmica della seconda novel di Harris dedicata a Lecter (il libro è del 1988), Il silenzio degli innocenti (The silence of the lambs, 1991) di Jonathan Demme, con l’istrionica interpretazione dell’attore britannico Anthony Hopkins, qui alla sua prima apparizione nel ruolo (nel film di Mann, Lecter era stato ottimamente incarnato da Brian Cox, meno sopra le righe ma efficacemente fascinoso). Il ciclo letterario vedrà altri due volumi, Hannibal (1999) e Hannibal Lecter – Le origini del male (Hannibal rising, 2006), ambedue portati su grande schermo, rispettivamente nel 2001, per la regia di Ridley Scott, e nel 2007, diretto da Peter Webber e senza la presenza di Hopkins. Lecter incarna una sorta di genialità malefica, uomo di grande cultura e brillantissimo intelletto la cui mente è però minata dalla follia, una follia lucida, e un appetito antropofago da gourmet, vera caratteristica-chiave del personaggio: Lecter infatti non divora in modo animalesco, non sbrana, ma cucina le proprie vittime come il migliore degli chef, accompagnandole con l’ormai celeberrimo “buon chianti”, in un tipico rituale da serial killer che presenta però l’elemento della ricercatezza, come a voler ribadire la sua superiorità sociale e intellettuale. Hopkins dà vita al personaggio in modo magnetico, carismatico, diventando Lecter, al punto che il ruolo gli è rimasto appiccicato addosso. Dalle tribù amazzoniche degli anni ’80 a uno psichiatra gourmand: il cinema ha reso il cannibale più vicino e minaccioso, ma anche più affascinante, seduttivo, ribaltando del tutto la prospettiva. Chi mangia gli uomini ora non è un selvaggio bensì un medico di fama, e in altre pellicole contemporanee il nutrirsi di carne umana ha il significato, peraltro ancestrale, di acquisire la forza del proprio “pasto”, diventando, in un certo qual modo, simili a un dio. Anche questo è, dopotutto, un modo di esorcizzare la morte.
Chiara Pani
Nel prossimo numero: i rape and revenge!
COMMENTI (1)
Inviato il 21 marzo a 12:33
"Negli epigoni successivi la voce off sparirà, sostituita dalla musica come in Faces of Death 2 (1994), in cui alle immagini si accompagna un’incessante soundtrack death metal."
Chiara, forse intendevi TRACES of death: faces of death 2 è del 1981 e ha sempre Carr/Gross come guida museale... Ti potrebbe in tal senso interessare lo speciale dedicato sul mio blog a Death Scenes, il terrifico trittico di Bougas...