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le lunghe attese di Anita Grey

Da Paride

Dando un primo sguardo alla sua vita e alla sua casa, di lei si sarebbe potuto dire forse solamente che si trattava di una persona molto sola – volendo essere completamente onesti, di una persona in cui la solitudine aveva scavato la dignità fino a raggiungere il patetico.
Luciana era una donna di mezz’età; se per mezz’età si vuol intendere un’età indefinita in cui non si è più abbastanza giovani da prendere la vita di petto ed aspettarsi qualche opportunità dal cielo, ma nemmeno si è ancora tanto vecchi da potersi lasciar schiacciare dalla vita inveendo contro la novità e pretendendo qualche piccola opportunità di vanagloria dagli altri.
Era una donna bassina, dalle forme un pò piene vanificate sotto vestiti di cotone informi, infeltriti su gomiti e ginocchia; a coronare il ritratto anonimo c’era un caschetto biondo cenere di capelli crespi che, ricadendo anche sulle palpebre, la portavano a stringere e spalancare i suoi piccoli occhi ritmicamente, come se si stesse sforzando di capire qualcosa per cui fingere interesse.
La sua dimora era di un banale color bistro, con dei geranei rugginosi alle finestre nei giorni più caldi; e se ne stava, sola tra mille simili, a scolorire accanto al panificio di quartiere. Le pareti delle stanze erano impregnate dell’odore di fiori appassiti e naftalina, per quanto quel donnino fosse sempre indaffarato a strofinare le mensole con l’ammoniaca e arieggiare le camere due volte al dì. Quella pulizia asettica aveva invece l’effetto di rendere l’ambiente ancora meno ospitale, o per meglio dire più impersonale e “immobile”, come se ogni oggetto e ogni molecola dell’aria fossero congelate nella loro posizione da un tempo indefinibile. Così che, quando qualcuno malauguratamente si trovava ad entrare e accomodarsi in salotto, aveva sempre la sensazione di essere fuori luogo, e continuava a rigirarsi sulla poltroncina di velluto come se fosse fatta di spine, e non vedeva l’ora di infilare l’uscita e andare a far due chiacchiere al bar con chicchessia, per scrollarsi di dosso la pesantezza di quella prigione del tempo, che tanta tristezza pareva piangere da ogni tinta, ogni oggetto, ogni porta di legno pesante.
Luciana teneva le unghie tagliate corte e smaltate di rosso, e da ventitrè anni usava sempre lo stesso profumo dozzinale, dolce fino allo stucchevole. Quel giorno era molto nervosa e si storceva le mani l’una nell’altra, guizzando avanti e indietro ora nel bagno, ora nella camera, ora nel salotto, come per riassettare, o prendere qualcosa, o spazzar via un velo di polvere con la manica; e poi tornava allo specchio, e faceva per prendere la spazzola, o ripassarsi il rimmel, e si guardava con un barlume di speranza che si soffocava all’istante nello sguardo morto dell’impersonalità. Senza un metro di paragone, possiamo veramente dire di essere belli, o di stare bene? Così nella sua solitudine aveva solo il nulla, con cui misurarsi; e con cui trovare impietosamente e docilmente mille punti di incontro. Ma Luciana non era una filosofa; Luciana aveva sì e no la terza media, e di queste cose neppure se ne avvedeva, e l’angoscia che le agitavano dentro nemmeno la sapeva angoscia, e si domandava cosa le prendesse, e tutt’al più come risposta metteva sul fuoco una camomilla.
In quel periodo in realtà Luciana sentiva più che mai il bisogno di scambiare anche solo due parole, di sentirsi parte di un qualche mondo, non tanto per una questione affettiva quanto per un desiderio disperato di normalità che attanagliava la sua piccola persona.
Finalmente si decise a prendere la borsa, quella di pelle marrone, che su quei vestiti faceva l’effetto della madre che corre in fretta e furia al mercato prima di prepararsi per andare a lavoro, e non bada di avere addosso quella che sembrerebbe più una tuta da jogging che una mise da passeggio.
Sta di fatto che era sabato, giorno libero, e lei stava programmando questa uscita da due o tre giorni. Aveva visto, tornando dall’ufficio, dei ragazzini che fermavano la gente per parlare di libri (si era avvicinata per sentire che fosse), ma siccome lei passava sempre di gran corriera dall’altro lato della strada, non l’avevano mai notata, e quindi non le avevano rivolto quelle tanto agognate parole di attenzione, che pure in quei momenti non avrebbe potuto ascoltare. Ma oggi, sarebbe capitata lì con aria sfaccendata, e loro l’avrebbero subito imbeccata, e fatto con lei il loro sfoggio di cordialità e di scadenti battute di comodo.
Quando arrivò sotto il porticato, però, c’era solo un gruppo rado di gente che cincischiava tra le vetrine dei pochi negozi aperti. Si guardò intorno, delusa e preoccupata, fece qualche altro passo, giocherellò con degli spicci che aveva in tasca, fingendo di guardare qualche cosa per terra o vicino alla chiesa, tornò inietro, sollevò gli occhi su un paio di facce dure e qualche espressione briosa da ragazzino o donna sbarazzina; questa indifferenza le riabbassò gli occhi sulle sue vecchie scarpe di cuoio, che torceva come a spegnere una cicca sul marciapiede. Poi prese un pò d’animo e si voltò di scatto, ritornando verso il suo vicolo a passo svelto.
Io, seduta sotto il portico, la osservai per tutto il tempo; e non ci misi molto ad immaginarmi la sua storia.


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