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Le mie letture – L’amore dell’ultimo milionario

Da Marcofre

Premessa: non è una recensione. È solo il mio punto di vista, quindi di parte. E adesso, cominciamo.

Anche se non sono mai comparsa sullo schermo, nel cinema ci sono cresciuta.

Che senso ha riflettere su un romanzo rimasto incompiuto? Può essere almeno interessante, oppure il mio è un maldestro tentativo di far apprezzare agli altri un abbozzo, un’opera che è rimasta congelata in uno stato di acerba bellezza? Sono io quindi che scrivo, oppure è la simpatia che ho per Francis Scott Fitzgerald che mi spinge a pestare le dita sui tasti?

Più o meno erano questi i pensieri che mi facevano compagnia mentre meditavo su cosa scrivere riguardo “L’amore dell’ultimo milionario”, conosciuto anche come “Gli ultimi fuochi”. Scott Fitzgerald muore lasciando tracce di come avrebbe desiderato chiudere la storia, e il libro in questione presenta lo schema dei capitoli previsto dallo scrittore; la pagina manoscritta con tanto di titoli immaginati da Scott; oltre alle lettere e agli appunti di lavoro.

Forse per questo se ne deve parlare? Perché la frattura della morte permette a chi viene dopo di ficcanasare nel laboratorio dello scrittore, e coglierne gli aspetti nascosti? Magari i segreti?

Non ci prendemmo la botta come a Long Beach, dove i piani alti dei negozi furono scagliati per la strada e gli alberghetti finirono in mare, ma per un intero minuto le nostre budella furono tutt’uno con quelle della terra – come in un mostruoso tentativo di riattaccarci il cordone ombelicale per risucchiarci dentro il grembo della creazione.

Questo brano descrive una scossa di terremoto ed è una lezione di scrittura, ma è un po’ tutto il romanzo ad avere questa caratteristica. Forse per questa ragione mi sono infine deciso a parlarne. L’esordiente avrebbe sprecato pagine e parole per descrivere un fenomeno del genere, Scott Fitzgerald affronta la faccenda con poche parole, e occorre riconoscere che sono quelle adatte alla storia che sta raccontando.

Si tratta di cinema quindi? Del dorato e maledetto mondo di celluloide?

C’è Hollywood o meglio, quella parte un po’ dietro le quinte che Scott Fitzgerald provò conquistare in un momento della sua vita difficile: aveva bisogno di soldi. Ne rimane confuso, seccato, di fatto estromesso. Stritolato?

Di certo lo scrittore comincia a immaginare una storia, quella del suo rilancio definitivo. Semplificando parecchio, il romanzo potrebbe apparire come un Gatsby trapiantato con successo nell’industria dell’intrattenimento. Il protagonista è Monroe Stahr, ha fiuto, è astuto, lavora come un treno a vapore. Conosce il pubblico, ma sa anche osare e proporre film capaci di perdere al botteghino. Gestisce attori, scrittori, colleghi produttori animato dalla medesima ambizione: ottenere quello che desidera, senza urlare o scomporsi, ma con determinazione e una capacità quasi magica di manipolare gli altri.

Alla fine, fanno quello che vuole lui, perché devono ammettere che lui sa cosa vuole, e ogni personale opinione, così netta e convincente, perde ogni alone di inviolabilità se Monroe Stahr decide di intervenire.

 È di nuovo Cecelia che riprende il filo della storia. Penso che sia molto interessante seguire i miei movimenti a questo punto, perché è un momento della mia vita di cui mi vergogno. E quello della gente di cui si vergogna, in genere è un buon materiale per una storia.

Probabilmente anche Scott Fitzgerald aveva qualcosa di cui vergognarsi. E affonda le mani in quella sua personale vergogna e ne estrae delle perle: è la magia della scrittura. Lo scenario di cartapesta attraverso il quale i personaggi si muovono, ha i tratti, i ritmi di una catena di produzione dove i suoi ospiti, grandi o piccoli che siano, sono presi, sedotti, assimilati. Stahr è il protagonista ideale di questo mondo, perché riesce a controllarlo, lo piega e lo indirizza dove vuole. Si offre a lui senza riserve, lavora sempre, ogni minuto della giornata, della sera, della notte è dedicato alla fabbrica dei sogni.

E questa macchina umana che deve occuparsi di ogni dettaglio, che deve intervenire su tutto e tutti, con un consiglio, un ordine, è quella che conserva uno sguardo che non è mai vinto dalla frenesia. È cinico, a volte duro, ma perché sa che agire in maniera differente vorrebbe dire essere divorati dalla bestia. È come se avesse stipulato un patto segreto con Hollywood: ti offro tutto, tu mi dai tutto, ma io mi riservo una fetta di umanità.

Lei finalmente arrivò. Così diversa e gioiosa.

C’è l’amore, si capisce. C’è il sogno che denaro e successo siano il mezzo indispensabile per l’amore, e questo è uno dei temi ricorrenti nella narrativa di Scott Fitzgerald. Rispetto alle altre opere c’è una maggiore severità nello sguardo dello scrittore, come se la consapevolezza che l’amore è una chimera, lo avesse conquistato in maniera definitiva. Eppure non importa, si va, ci si fida di questo rasoio che lacera e mette a nudo. Superfluo dire che l’epilogo sarà fallimentare. Ma quale epilogo?

Il romanzo si interrompe. Scott Fitzgerald muore, e ci lascia una storia che nella sua testa probabilmente era già definita, o addirittura finita, chissà. Eppure quella testa da qualche parte vive ancora, non può essersi spenta davvero, la bellezza delle frasi che si trova tra queste pagine non può chiudersi in maniera così balorda, con la morte. Perché allora questo romanzo, la narrativa tutta non ha senso. E se non ha senso la narrativa, la vita non è altro che concime per la terra.

L’amore dell’ultimo milionario. Di Francis Scott Fitzgerald. (Alet Edizioni. Tradotto da Maria Baiocchi e Anna Tagliavini. Introduzione di Goffredo Fofi. Prefazione di Paolo Simonetti).

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