Ricorderete che nel mio ultimo articolo (Ultimissima 13/1/12) avevamo cominciato ad affrontare il problema del libero arbitrio. In particolare, eravamo giunti alla conclusione – suggerita dalle considerazioni del filosofo Eddy Nahmias – che le moderne neuroscienze non decretano affatto la fine della responsabilità personale. D’altro canto, avevamo lasciato in sospeso la domanda più fondamentale di tutte: “Se la mia stessa autocoscienza è il risultato di una mera concatenazione di reazioni chimiche, governate da leggi inderogabili, come posso affermare di prendere decisioni davvero libere?”.
Continuiamo, dunque, nel nostro percorso di approfondimento sul libero arbitrio, rimanendo anche stavolta nell’ambito delle neuroscienze. Per inquadrare meglio la questione, è opportuno chiarire innanzitutto alcuni concetti fondamentali. Secondo il determinismo, lo stato dell’Universo materiale a un dato istante definisce univocamente, per mezzo delle leggi fisiche, il suo stato a ogni istante futuro. Insomma, fissata la situazione dell’Universo in un dato momento, la sua evoluzione successiva avverrà seguendo uno e un solo inderogabile percorso. Per l’indeterminismo, invece, a ogni data configurazione dell’Universo può corrispondere una pluralità di possibili futuri: a ogni passo si apre un ventaglio di possibilità tra cui scegliere. Molti sono convinti che il determinismo vieti l’esistenza del libero arbitrio. Infatti, se un solo percorso è possibile per l’Universo, e noi siamo parte di esso… evidentemente non possiamo fare altro che ciò che facciamo: non esiste nessuna possibilità di scelta per ogni nostra azione. D’altra parte, la situazione per la libertà potrebbe non essere necessariamente migliore nel caso dell’indeterminismo. Secondo questa concezione, infatti, da certe fissate condizioni iniziali possono scaturire diversi percorsi (selezionabili in un opportuno insieme di scelta) di cui uno solo sarà quello effettivamente seguito. Se, però, la scelta del percorso fosse attribuibile esclusivamente al caso, non si potrebbe parlare di vera libertà.
Adina Roskies, professoressa di filosofia presso il Dartmouth College, nel capitolo scritto per il libro “Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il libero arbitrio” (Edizioni Codice, 2010, pagg. 51 – 69), osserva che le tecniche di indagine neuroscientifica non sono in grado di risolvere la questione del determinismo, per un motivo molto semplice: non riescono a discriminare l’attività cerebrale a un dettaglio sufficientemente fine. Per intendersi, ciò che appare casuale alla scala di risoluzione della risonanza magnetica (che è dell’ordine del millimetro) potrebbe risultare deterministico, se solo analizzato a una scala più piccola (quella del singolo neurone o addirittura della singola molecola); viceversa, un’attività apparentemente deterministica potrebbe in realtà essere il risultato di molti eventi casuali aggregati. Magari si tratta solo di un limite delle tecniche attuali; però è probabile che un’analisi conclusiva richiederebbe una risoluzione almeno al livello molecolare… il che, temo, è destinato a rimanere pura fantascienza ancora per un bel po’ di tempo. Ad ogni modo, Roskies sottolinea che una risposta al problema del determinismo – se mai ci sarà – verrà assai più facilmente da una teoria fisica migliore che non dalle neuroscienze.
Cerchiamo ora di inquadrare la problematica da un altro punto di vista, quello del rapporto mente-cervello: è la famosa questione ontologica, trasversale al problema del determinismo. Semplificando molto: o si ammette l’esistenza di una distinzione concreta tra cervello e mente, che però sono in reciproca relazione causale – l’uno ha effetti sull’altra e viceversa (interazionismo); oppure si ammette l’insussistenza della mente come ente autonomo, che viene così considerata solo come un epifenomeno, ovvero come “qualcosa che il cervello fa” (riduzionismo materialista). Per intendersi, in questo caso il cervello è visto come l’hardware di un computer, la mente come il suo software. Quest’ultima concezione è sostenuta – tra gli altri – da Daniel Dennett e Douglas Hofstadter; la prima – per esempio – da Karl Popper e John Eccles. In tale ottica, il discorso sul libero arbitrio assume una dimensione in più.
Filippo Tempia, neurologo e ordinario di fisiologia all’Università di Torino, illustra – nell’articolo scritto per “Siamo davvero liberi?” (pagg. 87 – 108) – lo “stato dell’arte” delle neuroscienze nella prospettiva ontologica. Il famoso esperimento di Libet – ricorda Tempia – si proponeva di verificare se accada prima l’evento mentale della volontà di agire oppure l’attività neurale che conduce all’azione. Il presupposto, naturalmente, era che quello che viene prima è la causa di quello che viene dopo. I risultati, come è noto, sembrarono smentire la possibilità di un’azione causale dalla mente sul cervello, indicando viceversa che le decisioni siano il risultato dell’attività cerebrale non conscia, e non di un evento mentale volontario. In quest’ottica, la sensazione di essere agenti delle nostre azioni sarebbe equiparabile a una mera percezione sensoriale; il soggetto che decide sarebbe l’organo‑cervello, il cui funzionamento di fondo dipende solo dalle leggi della fisica; pertanto, la possibilità di un libero arbitrio in senso proprio sarebbe totalmente esclusa (sia nella concezione deterministica che in quella indeterministica). Dunque, l’esperimento di Libet sembrerebbe confermare il punto di vista del riduzionismo materialista.
In realtà, però, secondo Tempia la questione non si può considerare affatto risolta. Una serie di esperimenti eseguiti su diverse aree cerebrali ha infatti dimostrato – dice il neurologo – che “il tempo mentale di cui abbiamo coscienza non corrisponde fedelmente al tempo cronometrico, ma viene sovente deformato in modo da creare una rappresentazione mentale della realtà il più possibile coerente”. In altre parole, si osserva “una distorsione della percezione del tempo nelle vicinanze dei movimenti volontari”, che può giungere al punto di invalidare l’interpretazione della successione temporale di causa-effetto (“Siamo davvero liberi?”, pagg. 100 – 101). Perciò, a tutt’oggi non si può affermare che vi sia una qualche prova sperimentale conclusiva a favore del riduzionismo materialista: rimane quindi aperto il problema “se l’uomo possa decidere in maniera non determinata dagli antecedenti fisici del proprio cervello”. A ben vedere, l’idea che un nesso di causalità possa essere svelato da un’analisi della successione temporale degli eventi neurali risente di una concezione strettamente meccanicistica del cervello (visto all’incirca come un orologio, solo più complesso) – si basa, cioè, su un presupposto più o meno arbitrario, non fondato su ineccepibili dimostrazioni scientifiche. Eppure, la fisica del XX secolo ci ha insegnato che la realtà materiale non è riducibile nella sua essenza a fenomeni meccanici (magari con una spruzzatina di fenomeni elettromagnetici per spiegare la chimica). Pertanto – conclude Tempia – “finché non conosceremo la reale natura degli eventi mentali, e la loro relazione con le leggi della fisica della materia, non sarà possibile negare né confermare scientificamente un ruolo causale della mente”.
A questo punto appare chiaro che, per proseguire nella nostra ricerca, sarà necessario chiamare in causa altre discipline scientifiche oltre alla neurologia. In particolare, proveremo a capire se la fisica e l’informatica possono fornire indicazioni utili per la soluzione del problema ontologico, o se esso è destinato a rimanere insoluto… ma di questo parleremo la prossima volta.
Michele Forastiere
[email protected]