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Le notti dei lunghi bordelli

Creato il 20 aprile 2013 da Albertocapece

c7ab3f543f44662b03577c9ed2268a98234449d3e284febc8ade6645Anna Lombroso per il Simplicissimus

Notti dei lunghi coltelli, tradimenti, slealtà, disillusioni, inganni, infedeltà.
E dire che bastava dare retta al trailer, alla puntuale e tempestiva anticipazione del nostro presente e futuro, per interpretare e forse fronteggiare lo shock e lo svolgersi incalzante dello psicodramma. Poco più di due anni fa il Pasok aveva vinto le elezioni con il 42%, nei sondaggi più recenti è intorno al 4,5%. E il Pasok era “il partito” in Grecia, una colonna della socialdemocrazia mediterranea, una costante nella vita politica, sia che stesse all’opposizione, sia che fosse al governo, forte di uno stanziamento elettorale e di un organismo militante vivo e solido.
L’eutanasia, niente affatto dolce, del Pd non è l’unica morte partitica italiana: il Pdl, ancorché nutrito dall’ignavia invertebrata e complice degli antagonisti, partito autoproclamatosi “popolo”, prima travolto poi eroso dai vizi pubblici e privati del leader, ha assistito alla fuga centrifuga di milioni di elettori.

C’è chi attribuisce il finale di partito, secondo la folgorante definizione di Revelli, alla decadenza dei “sistemi” organizzativi tradizionali, che da strutturati sono diventati invece fluidi e permeabili. Proprio come quello economico, diventato da produttivo ad aereo, così si assiste a una precarizzazione istituzionale: le democrazie occidentali, ben oltre il disincanto previsto da Montesquieu, ben oltre la disaffezione fisiologica, sono colpite da una crisi di fiducia che ha minato l’istituto della rappresentanza e che ha insidiato inesorabilmente il fondamento della legittimazione politica.

In tutti i paesi ormai i partiti sono meno presenti, i loro legami con la società sono sempre più labili, ovunque all’identificazione e al riconoscimento si sostituiscono la separatezza e l’estraneità. Da noi ai fattori strutturali, di disgregazione della forma che si è data alla rappresentanza, alla gestione dinamica del disordine gradita ai poteri forti, distruttiva delle basi della democrazia, si sono aggiunte tremende variabili, quella “privatizzazione” e personalizzazione, delle istituzioni, del parlamento, della costituzione, quella permeabilità al malaffare, quella penetrazione endemica della corruzione. Tutti fenomeni favoriti dalla inafferrabilità degli attuali modelli organizzativi, da quella “liquidità” desiderata e alimentata artatamente, così da rendere immateriale il controllo, la vigilanza dal basso, il consenso e soprattutto il coagulo di opinioni e idee, l’amalgama di aspettative e tensioni morali, per la pervicace determinazione a subire lo stato di fatto, ad adeguarsi al pensiero forte, a mimetizzarsi nell’ideologia e nel sistema “padronale” nel quale è così pacificatorio accoccolarsi come in una cuccia calda di rendite e privilegi.

Non piango sulla fine del Pd, come non ho gioito alla sua nascita, quando nel “mausoleo” del lavoro, cacciato in soffitta insieme a ideali e lotte, ridotto a stanca memoria come i diritti, venne rotto volontariamente il patto, non con i militanti, non con gli elettori, ma con i cittadini, sequestrando le facoltà decisionali nelle mani della dirigenza, e, per traslato, dell’esecutivo, interrompendo la comunicazione, umiliando la partecipazione, intercettando i flussi, anche quelli finanziari, così da sgretolare l’edificio organizzativo, i luoghi, le piazze, gli appuntamenti quelli del ragionare insieme e del riconoscimento, promuovendo la rappresentazione al posto della rappresentanza.

Così venne spezzato il vincolo con gli sfruttati, grazie alla pervicace menzogna dell’evaporazione delle classi, infranti quelli di solidarietà con gli “altri” da noi, diversi per nazionalità, religione, inclinazione, i cui diritti sono stati retrocessi a elargizione e rotti quelli generazionali, se il partito che doveva testimoniare per tradizione, storia e valori degli interessi dei lavoratori, di quelli che non hanno parola, non parla più a loro nome, si rende complice delle politiche di annientamento del lavoro, delle conquiste, delle garanzie, rimuove, con il suo passato, la missione affidatagli e il nostro futuro.
Dall’autofondazione all’autodistruzione, il Pd si è accanito nel voler ostentare la sua modernità: quella di un organismo che non è nemico a sinistra – collocazione rinnegata con fastidio, e che non ha nemici a destra, nemmeno Berlusconi, protetto e riconosciuto come avversario alla pari, tantomeno quello di classe, padrone o manager, ammirato per dinamismo e creativa imprenditorialità, in casa e oltre confine, banchiere o tecnocrate, apprezzato fino all’idolatria, nella qualità di commissario, delegato, chiamato ed “eletto”.

Non piangeranno a Atene per la caduta del Pasok, hanno ben altro su cui versare lacrime. E non abbiamo troppo da dolerci se sono caduti i veli, dietro ai quali si è consumato il tradimento, quello vero, cominciato tanti anni fa. Dalle macerie potrebbe nascere Syriza, o qualcosa di differente e “oltre” ai partiti, interprete di cause oltre che di interessi, un organismo vivo e capace di ascoltare ed immaginare, che non può essere il post laburismo integrato e complice di Renzi, o il pragmatismo smart e rutilante di Barca. Stia attenta quella base risvegliatasi tardivamente, le fiamme che il Pd ha appiccato alla sua casa, non devono arrivare al Reichstag, non facciano lambire quel che resta della democrazia. E’ il loro incendio, ormai, noi diamoci da fare a tirar su una nuova casa, nostra.


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