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Le parole tra noi leggere

Da Vale
Che bello. Finalmente. Sono decisamente tornata ora, perché i fili resi così invisibili dalla mia defezione, riemergono.
Chi di voi non ha letto il post della Stima di ieri, deve andare. Io l'ho letto ieri sera a notte fonda. Poi sono andata a letto e, cara Paola, sul mio comodino c'era un libro che mi aspettava e che in fondo parla della stessa cosa di cui ha parlato Stima.
Le parole tra noi leggère di Lalla Romano
LE PAROLE TRA NOI LEGGERE
Una notte di qualche settimana fa, disperata perché non avevo più nulla da leggere, doppiamente disperata perché i 120 cartoni dei libri erano ancora chiusi, ho deciso di aprirne uno a caso e di rileggermi il primo libro che mi fosse capitato sotto mano. E così lui ha scelto me. E' un libro che mi hanno regalato al liceo, che avevo iniziato e non avevo finito. Non mi piaceva, era ostico e non lo trovavo interessante. Ok, mi sono detta quella notte, ora sei mio. Sono tornata a letto e ho cominciato a leggere la prefazione che la Romano aveva scritto per l'edizione qui sopra (1989):
A questo libro si accompagna in me un senso di colpa. E' un libro lucido, trasparente; ma un'ombra lo segue. Io non riconosco la colpa di cui sono stata accusata, quella cioè di aver "usato" un essere umano: la colpa per eccellenza, secondo Kant. Se chi scrive sempre in qualche modo "usa" gli esseri e se stesso, allora sì, è vero. Ma nel mio caso c'è l'aggravante che la vittima è un figlio: il mio stesso figlio.

Ecco, lei in questo libro racconta suo figlio, dalla nascita alla maturità.
Quanta colpa c'è nel narrarsi attraverso i figli? Nel pubblicare le loro foto? Nell'esporli nel teatrino della socialità, come dice Stima?
Probabilmente tanta e tanto narcisismo nostro, presumo, di noi narratori.
Un giorno fotografavo un foglietto che Gnomo Uno mi aveva scritto, era una protesta viva! E io l'ho fotografato col cellulare quel biglietto, perché mi piaceva e perché, non lo nascondo, mi stuzzicava riflessioni che avrei voluto rimandare al blog. Lui mi ha guardato e mi ha detto deciso: "Non lo metti sul blog, vero?".
E mi sono sentita come una bambina trovata con le mani nella marmellata. Mi sono vergognata.
Da lì ho capito che spesso gli mancavo di rispetto non rispettando la sua intimità, nodo cruciale del nostro essere esseri umani.
Potevo io in quanto madre prendermi questa libertà? No, forse no.
Da allora ho centellinato di più e ho condiviso con loro le mie scelte. Ma ciò non toglie il nodo come dice la Romano alla fine della prefazione:
Ho ripreso in mano il libro, l'ho aperto qua e là. E' quasi insopportabilmente vivo. (...) Non c'è giustificazione. Non ci può essere. Il rifiuto di lui (del figlio) è coerenza, verità. Ma il mio amore sbagliato, persecutorio, è il tema apparente del libro. Il vero protagonista è un sentimento più vasto. Un'amica triestina mi aveva suggerito come epigrafe un verso di Saba. Allora non ne compresi la purezza, anzi, la durezza. Mi pareva "troppo umano". E' l'ultimo verso del sabiano Ulisse:
e della vita il doloroso amore.
Sì, a volte pecchiamo di "troppa umanità", per questo con grazia ci assolviamo. 

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