Magazine Opinioni
di Maria Serra A sei mesi dall’inizio della cosiddetta Primavera araba, il Medio Oriente continua ad essere oggetto dell’attenzione mondiale, epicentro di conflitti ed instabilità, facendo temere, a seconda delle singole circostanze, importanti ripercussioni economiche e geopolitiche. Arrivati a questo punto della storia – perché di una pagina di storia dei manuali che i nostri figli studieranno si tratta – si possono trarre numerose considerazioni, che vanno ben al di là dell’analisi di singole proteste o avvenimenti. Per la prima volta nella storia di questi Paesi non si è trattato di guerre o invasioni, né tanto meno dell’avanzata islamista: questa volta il protagonista è stato il popolo, cittadini di Paesi diversi ma mobilitati per un’unica causa, senza alcuna organizzazione politica o partitica e, soprattutto, senza base religiosa o ideologica. Nelle strade di Damasco, in piazza Tahrir, nei centri libici sotto assedio, nelle vie di Sana’a e Manama non è stato sventolato alcun segno religioso, nessun turbante verde o nero, nessun grido “Allah è grande”, nessun riferimento alla guerra santa, nessun riferimento a repubbliche islamiste, nessuno ha rivendicato la sharia’a. E, cosa più sorprendente – ma nemmeno troppo – nessun riferimento ad attori esterni, nessun slogan contro l’imperialismo americano. Solo alcuni leader politici – Assad in testa – hanno fatto riferimento ad una possibile ingerenza da parte degli USA in un’ottica antisionista e destabilizzatrice dell’area mediorientale (invero, chi ci rimetterà proprio in termini di capacità di influenza nell’area in questione saranno proprio gli USA). I manifestanti, invece, hanno chiesto riforme economiche, libertà, un sistema maggiormente rappresentativo, la possibilità di esprimere democraticamente forme di opposizione. In breve, liberarsi delle “cleptocrazie” delle famiglie al potere. A fotografare la situazione in tempi non sospetti, infatti, era stato l’Arab Human Development Report del Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP), che nel 2002 constatava la maggiore arretratezza economica del mondo arabo rispetto ai Paesi asiatici e latinoamericani con cui per lungo tempo aveva mantenuto gli stessi standard di sottosviluppo. La spiegazione risiede, dunque, nel fatto che questi Paesi non hanno conosciuto alcun tipo di governance partecipativa: non esiste un solo Stato arabo democratico, a prescindere dal tipo di regime. Allo stesso modo questi Paesi registrano il più basso tasso di partecipazione delle donne al processo produttivo e il più basso livello di finanziamento alla ricerca, alla produzione scientifica, all’apertura agli input culturali e scientifici provenienti dall’esterno. Da qui si comprende perché in questo tipo di rivolta – e non ancora rivoluzione – non vi può esser stato nulla di ideologico. Rivolta – e non rivoluzione – perché questi popoli dovranno dimostrare di saper tradurre l’azione in una nuova forma istituzionale: trovare dirigenti politici all’altezza delle aspettative popolari, evitare le insidie dell’anarchia, ricostruire legami politici e sociali compromessi dai regimi dittatoriali, scongiurare i pericoli del fondamentalismo islamico. E qui il contesto cambia. Perché cittadini scesi in piazza senza alcuna affiliazione ideologica fra di loro, potranno operare un effettivo cambiamento solo attraverso forme politiche organizzate. E queste forme politiche non ancora mature per affrontare le sfide della transizione è più facile che lascino il posto alle gerarchie già organizzate dell’esercito o, ancora, ai movimenti, già strutturati, come quelli islamici. Ciò, tuttavia, non per forza dovrà corrispondere ad una deriva islamista delle società arabe, in quanto i fondamentalisti sono diventati per la maggior parte democratici e, a parte alcune frange che hanno continuato a fomentare la guerra santa e a girare per il Sahel alla ricerca di ostaggi, sono giunti alla conclusione della generazione che ha fondato il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP) in Turchia: si può scegliere solo tra la dittatura o la democrazia. Rivolta – e non rivoluzione – perché tutto quello che sta avvenendo dovrebbe portare ad un cambiamento di regime e non soltanto ad una sostituzione dei vertici di un regime non democratico. E, in questo senso, dunque, si deve riflettere sul ruolo degli eserciti. Ma naturalmente il quadro cambia di Stato in Stato, perché diverse sono le società in cui si inscrivono le proteste, perché diverse sono le motivazioni che risiedono alla base. Ma questa “Primavera araba” ci dice che qualcosa sta ugualmente cambiando. Di certo alla fine di questo anno ricco di avvenimenti non si potrà parlare di democrazia e libertà: queste sono conquiste che si raggiungono a prezzo di lunghe lotte. L’Europa di questo dovrebbe esserne consapevole, visto che la sua storia di affermazione di diritti e libertà è il frutto di un lungo percorso che è iniziato con la Rivoluzione Francese e si è concluso, almeno per una parte del Continente, solo con la fine della seconda guerra mondiale. E anche gli Stati Uniti dovrebbero esserne perfettamente consci, anche se questi, essendo fondamentalmente il frutto di un’esportazione europea, hanno spesso confuso la democrazia come punto di partenza con la democrazia come punto di arrivo. La caduta di Ben Alì e di Mubarak non significheranno molto all’interno delle società arabe, se non nella misura in cui si baseranno le relazioni interstatali in Medio Oriente e su quali basi procederà il difficile processo di pacificazione del conflitto arabo-israeliano. Tanto meno una sconfitta di Gheddafi o un’eventuale caduta di Saleh in Yemen o degli al-Khalifa in Bahrein potrebbero mettere in ballo le regole del gioco. Solo se Assad dovesse uscire sconfitto dalle rivolte del suo popolo qualcosa potrebbe iniziare davvero a cambiare. Perché a quel punto anche l’Iran dovrà comprendere che le relazioni internazionali non sono fatte solo di deterrenza nucleare o alleanze politico-militari, ma anche del grado di concessione fatto ai cittadini. Cittadini che, in un mondo sostanzialmente immobile, subiscono le regole del mondo globalizzato e che attraverso Twitter e Facebook possono intravedere un mondo diverso, mettersi a paragone, rivendicare la loro sete di uguaglianza. E imporre loro le regole del gioco. * Maria Serra è Dottoressa in Scienze Internazionali (Università di Siena)
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