di Arianna Barilaro
Le rivoluzioni democratiche dei Paesi arabi hanno rappresentato il punto di svolta storico nel percorso che fino ad allora il movimento salafita aveva intrapreso: proiettandosi sulla scena politica ed istituzionale e partecipando pubblicamente alle discussioni riguardanti il cambiamento sociale, culturale, politico ed istituzionale che ha scosso, ed ancora scuote, i Paesi arabi, il movimento è uscito dalla sua dimensione esclusivamente “educativa”, dando nuovi slanci e nuovi input agli ideali che lo caratterizzano.
Lo scorso 1 luglio, il Center of Strategic Studies dell’ Università di Amman, in collaborazione con la Friedrich Ebert Stiftung Fundation, ha tenuto un’ interessante ed approfondita conferenza sull’argomento attraverso le testimonianze dirette di esponenti del movimento salafita tunisino, egiziano, saudita, libanese, siriano e giordano, che si sono confrontati sulle diverse dinamiche e modalità di sviluppo caratterizzanti la trasformazione salafita in modo diverso in ciascun Paese: è chiaro infatti, come i recenti cambiamenti e il coinvolgimento nel “gioco politico” abbiano inevitabilmente messo in discussione alcuni principi propri dell’ ideologia salafita, provocando scissioni e disomogeneità all’interno del movimento, in senso ampio inteso, e all’ interno delle sue dinamiche in ciascun paese.
Prima della recente “svolta” il movimento si era sempre tenuto lontano dalla scena politica, rifiutando qualsiasi coinvolgimento istituzionale o formazione partitica, concentrando esclusivamente i suoi sforzi sull’ educazione salafita, volta al recepimento della cosiddetta Da’ wa, la chiamata Islamica.
“Salafi” è un termine usato per indicare e qualificare come “ortodossa” la posizione teologica di determinati autori, rispetto l’interpretazione e l’analisi della Sunna e degli Hadith; nell’accezione, per così dire, moderna del termine, “Salafi” si riferisce ad un movimento sorto in Egitto nella seconda metà del XIX secolo con l’intento di “Rivelare le radici della modernità all’interno della civiltà islamica” allo scopo di reagire alla diffusione della cultura europea e creare un’identità culturale propria legata ai valori islamici.
Dal “riformismo delle origini” è stato breve il passo verso l’identificazione fondamentalista delle correnti che attraversavano il movimento: ciò è dovuto al fatto che l’immagine prevalente del Salafismo emerge nella seconda metà del XX secolo, a partire dagli anni ’70, sotto l’egida e la forte influenza dalla corrente Saudita particolarmente legata alla posizione teologica di Muhammad ibn Abd al-Wahhab. Infatti in Arabia Saudita, fra il 1960 e 1970, l’influenza salafita del “Consiglio degli Anziani” ha iniziato a crescere e ad espandersi fino a rappresentare establishment religioso ufficiale, con a capo Abd al-Aziz ibn Baz e Muhammad ibn Uthaymeen, promotori di una visione esclusivamente religiosa e teologica del movimento, che non doveva farsi coinvolgere ed essere coinvolto nei meccanismi politici al fine di mantenere la “purezza” e l’ortodossia della da’wa islamica. Questa corrente del movimento è nota come “Salafismo tradizionale” o “Salafismo conservatore”, in contrapposizione con l’altra frangia del movimento, conosciuta come “Salafismo attivista”, sostenitrice della partecipazione politica del movimento, che sempre sotto l’egida del principio del “rispetto delle Regole”, avrebbe potuto contribuire al cambiamento anche istituzionale della società islamica. La “jihad” dei nuovi salafiti era ed è proprio l’islamizzazione delle istituzioni, attraverso la sintesi tra Da’wa islamica e l’implementazione della Shari’ah nelle leggi dello Stato.
La nuova fase, consacrata attraverso la diretta partecipazione ai movimenti rivoluzionari nonché alle successive elezioni politiche, oltre a creare incertezze ed incomprensioni, ha messo al centro dell’attenzione mediatica le dinamiche, le scelte e i programmi che il movimento sostiene in ciascun Paese: in realtà, come la Tunisia ed ancor più l’Egitto, in cui il periodo di transizione democratica sembra incontrare ostacoli più o meno grandi sul suo percorso, il ruolo svolto dai partiti islamici nati sotto la guida del movimento salafita è fondamentale.
E se ci si interroga, dentro e fuori dal movimento salafita, su quale potrà essere l’impatto e su quali saranno le dimensioni del ruolo politico che i salafiti avranno all’interno dei nuovi assetti istituzionali nei Paesi toccati dalla rivoluzione, restiamo privi di considerazioni di fronte alla recente scelta di Al-Nour di prendere parte alle dinamiche politiche che hanno destituito Morsi e guidare l’Egitto nella nuova transizione democratica, quando meno di 10 mesi fa fu il principale ed indispensabile alleato della Fratellanza Musulmana di Mursi, colpevole di non aver rotto i legami con l’entourage politico-istituzionale del precedente regime e di non aver sufficientemente preso in considerazione l’“ultimatum” arrivatogli dalla piazza e dai vertici militari.
Hizb Al-Nour (Partito della Luce), infatti, è uno dei più importanti partiti politici creati dopo la rivoluzione del Novembre del 2011, con un’ideologia ultraconservatrice volta all’implementazione del ruolo della Shari’ah e della Legge Islamica all’interno dello Stato, si dichiara essere “il braccio politico della chiamata islamica”: nelle prime elezioni parlamentari del post-Mubarak, Al-Nour detiene 111 seggi su 127, vinti dal blocco dei partiti islamici, delineando e incidendo notevolmente sugli equilibri del nuovo governo Mursi e della Fratellanza Mussulmana stessa. Talmente forte ed incisivo nella fase crisi di governo Mursi che soltanto il 25 Luglio scorso, dopo oltre 15 giorni dalla deposizione dell’ ex-Presidente, il leader di Al-Nour Younis Makhioun ha rilasciato le prime dichiarazioni ufficiali, all’emittente satellitare Al-Arabiya, circa le dinamiche precedenti la destituzione e le scelte interne che il partito ha dovuto compiere: rivelando che l’iniziativa ideata dall’esercito non era volta alla caduta del governo, ma solo ad un suo rimpasto, accusa esplicitamente la Fratellanza Musulmana di aver fatto pressioni su Mursi affinché non ascoltasse e non prendesse in considerazione le richieste che arrivavano dagli alti vertici dell’esercito e di aver determinato il crollo della popolarità e della credibilità dei partiti islamici in Egitto. La dichiarazione di Younis Makhioun arriva in un momento in cui le tensioni all’interno del partito, durante la nuova fase per la costruzione di un nuovo governo in Egitto, ne minano la solidità: scissioni ai vertici e alle basi del partito salafita rischiano di frammentarne l’amalgama ed indebolirne la forza politica, laddove i principali temi su cui si discute riguardano la “revisione” dell’ ideologia salafita: incompleta e fumosa rispetto ai grandi temi della Democrazia, del Pluralismo e delle Libertà individuali all’interno dello Stato, da bilanciare al progetto di “Islamizzazione” della società che caratterizza la missione teologica del movimento.
Così, si finisce come sempre per chiudere il discorso riguardo alle rivoluzioni arabe in sé considerate, e alle fasi di transizione democratica in corso, se sia compatibile, possibile e realistica la teorizzazione di un “Civil State” all’interno di un “Islamic State”, o viceversa.
*Arianna Barilaro è Dottoressa in Giurisprudenza (Università La Sapienza – Roma)
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