Caro dottor Sergio Marchionne,
giorni fa i giornali hanno pubblicato la sua lettera alle "persone" della Fiat dopo la firma dell'accordo su Pomigliano e la Panda. "Vi scrivo da uomo che crede fortemente che abbiamo la possibilità di costruire insieme, in Italia, qualcosa di grande, di migliore e di duraturo". Parole che le fanno onore in tempi in cui, sono cronache di questi giorni, imprenditori sono finiti in galera per aver ridotto sul lastrico un'azienda e i suoi dipendenti in un preciso disegno di depauperamento di un patrimonio societario in totale spregio di chi in quell'azienda (l'Eutelia) lavorava. "Quello che noi stiamo cercando di fare con il progetto "Fabbrica Italia" e' (...) colmare il divario competitivo che ci separa dagli altri paesi e garantire all'Italia una grande industria dell'auto e a tutti i nostri lavoratori un futuro più sicuro".
Parole importanti e rassicuranti in giorni in cui un'azienda come Telecom, dopo i rally di borsa dei tempi d'oro (da bresciano conosco qualcuno di quei piloti spregiudicati oggi fermi ai box ) e nonostante gli utili macinati negli anni annunciano migliaia di esuberi da bruciare entro il prossimo giugno. Alle contestazioni che hanno portato un sindacato come la FIOM a non firmare l'accordo lei risponde pacato che: "Le regole della competizione internazionale non le abbiamo scelte noi e nessuno ha la possibilità di cambiarle. L'unica cosa che possiamo scegliere e' se stare dentro o fuori dal gioco". Capisco, dottor Marchionne, che le regole del gioco non le fa la Fiat, ma proprio a lei, che e' riuscito pochi giorni fa a far cambiare idea sull'operazione Chrysler a quegli scettici analisti del Wall Street Journal, mi permetto di chiedere uno sforzo in più. Di questi tempi
troppo spesso abbiamo la tendenza a considerare alcune conquiste fatte da tante generazioni di lavoratori e di illuminati imprenditori come dei privilegi, degli intollerabili agenti corrosivi della competitività. E non e', mi creda, una questione di monte ore straordinarie o di minuti di pausa: e' una cultura del lavoro che non si può cancellare solo perché nel mercato globale c'è chi sta peggio. Sa, dottor Marchionne, sono un inguaribile sognatore e, leggendo le sue parole, mi sono convinto che ai sogni crede un po' anche lei. Sa, dottor Marchionne, io credo che un mondo migliore e' possibile e che non e' l'Italia che deve arrivare sempre più ad assomigliare alla Polonia, ma e' la Polonia che deve poter mettere a frutto quelle conquiste che hanno fatto grande l'Italia. Utopia? Forse. Ma mi piacerebbe, dottor Marchionne (mi rivolgo a lei perché mi sembra uno con i numeri per le "mission impossible") che la prossima opera di lobbing su chi le regole le fa non sia per lucrare l'ennesimo incentivo, l'ennesimo aiuto, ma per cercare di costruire "il futuro che vogliamo". Un futuro - sono parole sue - "diverso e migliore per i nostri figli e i nostri nipoti". Un futuro dove, lei converrà, nessuno mai piu' potrà chiamare, nel nome del mercato globale, le "conquiste" "privilegi". In Italia come in Polonia.
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