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«Con mia mamma è stato difficile. Quando ho deciso di parlarle, ho dovuto farlo a lungo, dirle piano che non ero malata, che il mio essere lesbica non era una questione genetica, che lei colpe non ne aveva, che c’entrava l’amore e non il sesso, non la perversione. Era piena di quei pregiudizi interiorizzati: “O mio Dio, non ti sposerai” “Tuo padre non ti porterà all’altare”, “Io non sarò mai nonna”, “Avrai una vita difficile”. Poi un giorno mi ha vista oltre un vetro di una sala parto cullare tra le braccia il bambino appena nato di una mia amica. E ha capito che sono ancora una donna, che anch’io ho un desiderio di maternità. E si è messa l’anima in pace».
Maura Chiulli ha trent’anni, cresciuti con l’educazione cattolica fatta di oratori e messe in un paesino nella provincia di Pescara. Fino al giorno in cui a ventitré ha aperto la sua porta di casa da studentessa a Roma a una ragazza che non conosceva e ha iniziato a vederla «bella in modo strano», aveva avuto solo fidanzati uomini. Poi è arrivata Silvia, «qualcosa di immenso». E con lei sono cominciati bruciori allo stomaco veri. E fatiche.
«Dopo due anni che stavamo insieme, nel 2008 abbiamo deciso di cercare casa in affitto a Rimini. L’abbiamo fatto con l’entusiasmo che ha una giovane coppia alla prima convivenza.
Invece, non riuscivamo a trovarla. L’agente immobiliare a un certo punto ci consiglia di fingerci solo amiche, sorelle, cugine: “Fate come vi pare, dite la prima cosa che vi viene in mente, ma non quella”».
Maura conosceva già bene che cosa significasse avere addosso lo sguardo altrui tagliato male. «Accettarmi è stato devastante. Dirlo a me stessa, voleva dire dirmi diversa per sempre. Dirlo ai miei, la fine, pensavo, dei nostri rapporti. Così ho alzato un muro con il mondo. Sperando di lasciar fuori con lui pure il suo giudizio. Ho attraversato l’autolesionismo, la bulimia. Erano i miei antidoti, le mie negazioni. Piuttosto che verbalizzarlo, il mio dolore preferivo scrivermelo sul corpo con i tagli. Con il cibo, declinavo il mio senso di inadeguatezza. Vivevo contando le calorie, cercando la lama più affilata. Facevo l'università, Economia, ma non mi davo futuro». Decide allora di andare in cura. L'aiuta un analista. Va meglio, prova a rimettersi in gioco.
«Un posto da commessa, in un negozio di vestiti. La mia compagna spesso mi veniva a prendere, capitava uscissimo mano nella mano. La titolare una mattina mi chiama in magazzino. “Dimmi la verità, sei lesbica?”. “Sì, è un problema?”. “Non ho più piacere a lavorare con una persona come te”». Il peggio, però, arriva d’estate. Nel 2010. Luglio. Maura prende la moto e corre via sulla strada vicino alla casa che nel frattempo sono riuscite a comprare insieme.
«M’investono, perdo i sensi. Biascico il suo nome, la chiamano. Silvia arriva, insieme all’ambulanza. Chiede di salire con me. Succederà sempre, per ragioni di sicurezza, ma il para medico la lascia a terra con un “Chi sei?” “La sua compagna” “Non un familiare, quindi”. Se non sei un familiare nell’accezione loro, non accompagni e non sai notizie sullo stato di salute di chi ami soprattutto tra le barelle. Io in ospedale sono rimasta per quattro ore da sola. Intorno a me tutti erano accompagnati e rassicurati: chi dal fidanzato, chi dal marito. Io avevo una spalla e il polso rotti. Fuori Silvia, con i pensieri. Vicino, a tenermi la mano, una volontaria della Croce Rossa. Finché un medico assennato non m’ha ascoltata. Sta tutto lì, nel buon senso, sa?». Maura da allora s'impegna (è diventata Responsabile Nazionale Arcigay Cultura). E da molto prima, più per salvarsi dal mal senso che per pagare il mutuo, scrive.
Dopo le poesie da bambina, vari romanzi spediti a case editrici che «rispondevano insultando: l’immondizia omosessuale non la pubblicavano, loro» e un paio di successi, pubblica Out. Storie di ordinaria discriminazione (Editori Riuniti, 15 euro). È uscito a marzo in libreria. Contiene dati importanti di una ricerca nazionale sul bullismo omofobico, «su quella violenza verbale per cui nelle scuole italiane s’insulta il compagno di classe dandogli del frocio, con gli educatori che minimizzano, impreparati».
E storie di «troppo amore». E' diretto, sopra a tutti, «agli amici precari» (è il titolo di un capitolo finale). Com’era lei, quando la parola «lesbica» non le usciva («Era un insulto, dovevo ripulirla. Per dare un nome al mio orientamento sessuale parlavo d’amore, di legame. La prima omofoba ero io»). E non ce la faceva a dirlo a se stessa («Oggi lo rivendico con orgoglio: sono lesbica, e lo so dalla direzione del mio sguardo e del mio affetto che va tutto verso le donne»). E ai suoi («Che stupidi che siamo, a volte. Pensavo fosse la fine. Fu invece una liberazione. Per loro, alla fine dei giochi, la mia compagna era mia moglie»).
Firma l'appello alla Fornero per i diritti alle unioni gay
di L. Farnese
Fonte: VANITY FAIR.it
Vi abbraccio Marco Michele Caserta
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