Non è per niente facile leggere un malloppone di 613 pagine, indice escluso, in lingua originale.
Penso ci siano due modi per farlo: tenersi sempre accanto il dizionario (e quindi interrompere la lettura ogniqualvolta non è chiaro il significato di un termine) o leggere alla bersagliera, cercando di intuire dal contesto le parole più misteriose.
Ho scelto la seconda strada e penso di essermela cavata, anche se ogni tanto andavo a letto ripensando a una frase più stramba o ambigua del normale e chiedendomi cosa diavolo significava. Un paio di volte ho controllato su Google. Nel complesso è stata un’esperienza divertente, anche perché la presenza del ghostwriter (e amico di lunga data) James Fox, nel caso di quest’autobiografia non ha pregiudicato lo stile estremamente personalizzato del chitarrista. D
iretto, onesto per quanto può esserlo una ricostruzione soggettiva dei fatti della vita, senza peli sulla lingua e non esente dal turpiloquio, dallo slang cockney, dalla ripetizione ossessiva di frasi fatte e modi di dire colloquiali; come dire, l’esatto opposto del bello scrivere e dell’autoidealizzazione che il Vip medio si augurerebbe di lasciare in ricordo ai posteri.
E siccome il malloppone racconta anche di Droga (molta) & Amori (meno numerosi di quanto si potrebbe credere) & Musica (molto amata) & Amicizie (moltissime e feconde) & Vitalismo (parecchio, altrimenti il Nostro non sarebbe ancora qui a raccontarcela) & Animali ( ma va’?) & Ricette di cucina (idem), vi ragguaglierò brevemente su qualche tema.
Non senza due bonus track, senza le quali le più alte curiosità dei miei lettori sul “demoniaco” Richards rimarrebbero inespresse:
1. ha veramente sniffato le ceneri di suo padre?
2. si è veramente fatto cambiare il sangue?
Ceneri alle ceneri
Ci volle un comunicato stampa perché i media smettessero di diffondere la voce che Keef, noto tossicomane e figlio unico, si era fumato le ceneri del padre Bert. La colpa era di una delle sue tante dichiarazioni campate in aria.
A quanto racconta qui, per 6 anni il chitarrista si era tenuto in casa l’urna cineraria, non volendo spargerne il contenuto al vento. Alla fine gli viene l’idea di piantare una quercia e seppellirvele sotto, ma quando estrae la cassetta interna dall’urna, una lieve traccia polverosa si sparge sul tavolo:
I couldn’t just brush him off, so I wiped my finger over it and snorted the residue. Ashes to ashes, father to son. He is now growing oak trees and would love me for it.
Ricarica di emoglobina
Negli anni ’70, Richards si reca più volte in Svizzera per le sue tante disintossicazioni dall’eroina, in gergo cold turkeys (uno dei peggiori effetti dell’astinenza). Una volta, scendendo dall’aereo, a un giornalista che gli chiede ragguagli, borbotta scherzando:
“Vado a farmi cambiare il sangue”.
La frase fa il giro del mondo, nessuno la vede per la stronzata che è, da lì la leggenda; e si capisce che facesse presto a fiorire e a mettere radici e ramificazioni, vista l’attenzione spropositata dei media inglesi e non verso gli Stones.
Lui ammette che ci metteva del suo, tra lanci di coltelli, incidenti d’auto da colpo di sonno, kohl, denti rotti: faceva parte del personaggio, del dare al pubblico quello che si aspettava. Certo doveva essere seccante essere inseguiti e spiati dalla polizia sempre e comunque, per non parlare della caterva di processi.
A un certo punto, nel ’73, una rivista compilò un cinico elenco dei primi dieci "morti che camminavano" del mondo della musica: indovinate chi era il primo? Keef rimase in cima alla classifica per ben 10 anni, e quando fu scalzato dal podio un po’ gli dispiacque. Immagino i giornalisti costernati vedendo che quel bastardo non moriva mai!
Poi finisce che a settant’anni suonati ti ritrovi (peraltro divertendoti) a interpretare il papà di Johhny Depp in Pirati dei Caraibi 3 e a insegnargli, a Johnny Depp, come si cammina rasente un muro da ubriachi.
Solo roba buona
Su quanto gli allora eroinomani Richards, Pallenberg e compagnia bella fossero invidiabili, belli, magri, e insomma agli antipodi dei Ragazzi dello Zoo di Berlino, si è già espressa meravigliosamente quella carogna di Guia Soncini.
Aggiungiamo che l’epoca era particolare; che Richards è encomiabile per come evita appelli accorati quanto ipocriti ai Giovani d’Oggi affinché non si droghino (infatti di recente hanno beccato anche sua figlia Theodora... qualche canna e poco più, per ora); che alcune interminabili descrizioni di come ci si droga, di come uno si procurava la roba al famigerato Chelsea Hotel o simili, mi hanno annoiata e le avrei preferite tagliate - ops, asciugate.
Il punto - e il chitarrista lo dice chiaramente a più riprese - è che non tutti hanno la tempra fisica per fare quella vita dissipata per trent’anni. John Lennon, che cercava di imitarlo, si ritrovava puntualmente a vomitare sulle piastrelle del bagno di un dispiaciutissimo Keith.
Molti ne sono morti, altri sono sopravvissuti appena, altri ancora (la Pallenberg) in pratica non sono mai riusciti a smettere. Lui a un certo punto ha smesso. Ma non sarebbe qui a raccontarcelo se non avesse avuto una salute di ferro e - altra ammissione che fa piacere per la sua onestà - se non avesse sniffato, inalato, iniettato nelle proprie vene il meglio che c’era sul mercato, roba purissima, altissima e levissima. La qualità fa la differenza, e spesso anche il morto, in questi casi.
Negro dentro
Un po’ l’avevo capito dall’album Stripped, l’unico che possiedo dei RS, abbastanza tardo: più che un rocker, Richards è e si sente decisamente un bluesman. Un negro dentro, si definisce spesso. Di qui i fortissimi legami della band – più che con la scena inglese - con l’ambiente blues americano, ma anche con quello country, jazz, rock-and-roll (alla fine Keith è riuscito a suonare con la maggior parte dei suoi idoli di bambino, da John Lee Hooker a Chuck Berry), con i rasta giamaicani e con grandi artisti incasellabili come Tom Waits.
A parte questa precisazione sui generi, la cosa evidente nel musicista Keith Richards è l’amore per la musica in sé. Lo dice e lo ripete: non me ne frega niente di soldi e fama, me ne frega di poter fare la mia musica. Poi il contorno non ha mai fatto schifo a nessuno, ma non è per quello che mi sono sbattuto tanto. E tu gli credi.
Pagine e pagine sono dedicate alla chitarra, al suono, alla meraviglia con cui Keith, senza mai smettere di imparare, ha sperimentato, imparato, copiato e innovato suonando il suo strumento.
Gemelli creativi
Glimmer twins: così sono stati soprannominati Mick e Keith. E a ragione, visto che il 99,9% delle canzoni dei Rolling Stones le hanno composte loro, quasi sempre in coppia. Loro sono i Rolling Stones, entrambi, nel bene e nel male. Se cade uno, cade anche l’altro.
E, cosa volete che vi dica, per me è stupefacente pensare che due ragazzotti della piccola borghesia di Dartford, uno (KR) studente a tempo perso alla Scuola d’Arte, dove certo non si insegnava musica, e autodidatta di chitarra grazie al nonno, l’altro (MJ) studente modello di economia, inizino a fare musica nei club suonando solo cover dei loro idoli rock e blues e, sì, va bene, sanno suonare l’uno e cantare l’altro, ma ad un certo punto, un produttore li chiude in una stanza ordinando loro di comporre qualche canzoncina, e i due si mettono d’impegno e cominciano a sfornare canzoni a getto continuo e scoprono di possedere un dono che non sapevano neanche di avere.
Il loro metodo non è quello della premiata ditta Lennon/McCartney: se questi ultimi si alternano, al punto che le canzoni dell’uno sono distinguibilissime da quelle dell’altro, la coppia stoniana lavora per anni in piena sintonia, o armonia: a uno viene in mente una frase, una parola, un riff (miagolando senza motivo “Angie, oh Angie..” o, di notte, “I can’t get no satisfaction”, o vedendo un giardiniere e ripetendosi "Jumpin' Jack Flash"), poi la dice all’altro e l’altro ci mette del suo, finché viene fuori una canzone, testi e musiche.
E questo può avvenire ovunque, in tour, negli Usa, in un letto d’ospedale, a casa (Gimme shelter gli viene in mente così, guardando il cielo in tempesta, un giorno che è in casa da solo e ha mangiato la foglia su Anita che secondo lui se la fa con Mick sul set di Performance).
Addirittura il Richards maturo – per lo stupore dei suoi compagni occasionali d’avventura – è così sicuro della sua vena da comporre spesso in sala d’incisione: dalle jam session fuori e dentro gli Stones, vengono fuori molti suoi pezzi dagli anni ’80 in poi.
Amicizie virili
Intanto si smonta immediatamente la favoletta tutta giornalistica della rivalità con i Beatles: svariati gli aneddoti su John Lennon, col quale Keith aveva grande feeling, e negli ultimi anni anche con Paul McCartney, anche se i percorsi musicali sono diversi.
A parte questo, l’immagine che il chitarrista dà di sé è di uomo pronto a fare amicizia con chiunque – se c’è quel feeling immediato che dice lui - e a portarla avanti per sempre, finché morte non li separi; spesso sono degli stronzi, o dei profittatori, o dei fornitori di droga divertenti, e quasi tutti sono stati in galera. Ha un debole per gli avanzi di galera, e se ne vanta. Parecchi muoiono di overdose, come Gram Parsons.
Un capitolo a parte riguarda il rapporto con Mick Jagger, che definisce più fraterno che amichevole (i due, entrambi figli unici, si conobbero bambini) e quindi connotato da quell’amore-odio che tra fratelli può esserci. Per un certo periodo anche i loro legami sentimentali si incrociano; divertentissima la rievocazione di quando Mick, su un set cinematografico, seduce Anita Pallenberg, compagna di Richards (che l’ha soffiata a Brian Jones), e Keith, che lo sospettava da vari indizi, non fa una piega perché tanto anche lui una sera è stato con Marianne Faithfull (scappando dalla finestra, senza calze, all’improvvido ritorno del legittimo fidanzato).
Stupisce leggere che ogni qual volta lui, Keith, stringeva una nuova amicizia, Jagger cominciava a sparlare di quella persona: era geloso, insomma. E stringe il cuore l’analisi impietosa dell’amico, della sua involuzione degli anni 80, delle sue ambizioni ridicole (è vero che gli album solisti di Jagger non se li è filati nessuno), alla ricerca spasmodica di qualcuno da cui copiare l’immagine o il sound, che sia Bowie o Michael Jackson, al costo di perdere non solo la propria autenticità e integrità. Terribile l’episodio in cui la figlia di Richards e le sue amiche si mettono a cantare un testo di KD Lang su una canzone appena composta da Mick, e un inorridito Keith si rende conto di dover telefonare alla svelta agli avvocati per far includere la Lang nei credits, perché Mick (che è “una spugna”) l’ha copiata involontariamente:
Why would you want to be anything else if you're Mick Jagger? Is being the greatest entertainer in show business not enough? He forgot that it was he who was new, who created and set the trends in the first place, for years.
Vuota veramente il sacco, Richards, in questo libro, su Jagger: leggere, per credere, come lo mette alla berlina per le sue ambizioni da baronetto, il dirigismo, la sindrome da primadonna, i passi di danza innaturali, la penosa andropausa con rincorsa delle mode e degli ambienti alla moda. Ammette di non avergli mai perdonato i periodi da solista, poi revocati, che Jagger decise senza minimamente informarne o consultare gli altri membri del gruppo.
Il gruppo conta, per Richards, conta moltissimo: se fosse uno scienziato della teoria dei giochi, sosterrebbe di sicuro che la cooperazione arricchisce tutti. Per l’individualista Jagger, molto meno. Si ha anche l’impressione di una differenza di temperamento essenziale: invecchiando, Richards ritiene di aver già dimostrato la sua grandezza e il suo genuino amore per la musica e di poter solo continuare serenamente a essere sé stesso, nel solco delle innovazioni al blue che ha già dato.
Mentre Jagger è, con tutta evidenza camaleontico, portato al cambiamento – cambiare per non morire. Gli piace cambiare donna, accento, pensiero e pure lingua. È appena uscito il suo album con i Super Heavy - Dave Stewart, Joss Stone, Damian Marley e A.R. Rahman, e scusate se è poco - in cui canta perfino in pakistano.
Sono due modi di essere agli antipodi, e si comprende che a un certo punto i due vecchi amici non si siano più riconosciuti e l’uno si sia sentito tradito dall’altro.
Amori, pochi ma lunghi
Da quando appare in scena la prima e unica moglie, Patti Hansen, nel 1979, la pacchia finisce e le storielle piccanti pure (se ce ne sono state altre, è evidente che per riguardo a lei e alle due figlie, qui non appaiono).
Il prima è quello che ci si aspetta da una rockstar di alto livello, ma caratterizzato da grandi passioni, grande timidezza (“Non sono mai riuscito a fare il primo passo con una donna. Io creavo la tensione, poi stava a lei decidere se provarci o meno”) e un certo rispetto per la donna, mai trattata come oggetto.
Richards monogamo? Tendenzialmente sì, visto che ha avuto solo due relazioni lunghe, di cui una legalizzata, entrambe seguite dalla nascita di figli. A prescindere, naturalmente, dal clima Sixties, che era quello che era e nel quale nessuno, se non altro per non passare da sfigatello all’antica, si sognava di dare o di pretendere fedeltà sessuale.
Non si fatica a credere alla sua quasi venerazione per la valchiria, mezzo italiana, mezzo tedesca, Anita Pallenberg: attrice, modella e pittrice, già compagna di Mario Schifano e poi di un membro degli Stones, quel Brian Jones che, a detta di Richards, la picchiava venendo ricambiato con gli interessi. “Dissero che gliel’avevo rubata. Io credo di averla riscattata.”
Ma l’impressione di un rapporto umano, istintivamente rispettoso, affettivo e affettuoso con l’altro sesso, si respira in molti passi del libro, e i camei delle donne passate nella sua vita suonano tutti come veri e propri omaggi al femminile.
Qua e là accenni alle donne ufficiali di Mick Jagger, ma si intuisce che Richards non ha voluto infierire né spettegolare, nonostante una mezza paginetta che rievoca tutte le donne di Mick – tutte – che prima o poi hanno pianto sulla camicia dello “zio Keith”, sporcandola di trucco, per i tradimenti dell’incorreggibile fedifrago. La perfidia se l’è tenuta tutta per descrivere il loro rapporto, quello tra i glimmer twins.
Bestioline
Ci sono molti animali salvati: gattini come Voodoo, che darà il nome al Voodoo Lounge tour (bellissima la foto del chitarrista che tiene in spalla questi venti grammi di bestiolina soriana); e cani come l’indomito Rasputin, salvato dalle strade di Mosca. Gli unici che Richards non sopporta sono i pappagalli e gli uccelli canori: di uno che disturbava le sue fasi di composizione, alla fine si liberò.
“Mi sembrava di avere in casa Mick Jagger tutto il giorno.”
Ricette improbabili
Sul sito Idioteque trovo finalmente la spiegazione che Google Translator si rifiutava pervicacemente di darmi:
“Bangers and Mash”: tipico piatto londinese servito nei pubs, a base di salsicce (“bangers” – la denominazione deriva dal fatto che le salsicce “bang”, ossia esplodono, durante la cottura) e purè (“mash” – che nasce come contrazione di “mashed potatoes”).
Detto questo, Keith Richards, che con la vita che fa spesso mangia da solo e/o agli orari più assurdi, a pag. 588 di questo libro ci fornisce la sua ricetta dei Bangers and Mash, e penso converrete con me che possiamo anche risparmiarcela.
Poi c’è un episodio molto gustoso, su una delle sue arrabbiature, quando al matrimonio della figlia Angela (vero nome Dandelion, grazie a quella sciroccata di Anita) alle tre di notte fece una scenata perché erano spariti i suoi cipollotti. il malcapitato ladruncolo si nascose fra i cespugli per tutta la notte.
Keith Richards (with James Fox)
Life
Phoenix, paperback edition, 2011