Nel mondo anglosassone il dialogo tra scienza e fede trova molto più spazio sui quotidiani internazionali rispetto all’Italia. Questo è spiegabile con il fatto che in queste aree le voci critiche al rapporto tra scienza e religione sono molto presenti e altrettanto stanno diventando gli intellettuali che prendono posizione in favore. In Italia purtroppo non c’è nessun critico di livello. Ultimamente è intervenuto lo storico Peter Harrison, docente e primo ricercatore presso il Centre of the History of European Discourses dell’University of Queensland. Ha insegnato presso l’Università di Edimburgo e a Oxford, dove è stato anche direttore del “Ian Ramsey Centre”, è membro dell’Australian Academy of the Humanities, ha ricevuto dal governo australiano la Centenary Medal nel 2003 per meriti accademici.
Ha scritto su “ABC” che la predicazione dei vari anti-teisti circa il fatto che la scienza ha reso incomprensibile la fede religiosa è innanzitutto in contrasto con l’evidenza storica: «si può notare», infatti, «che una alleanza tra scienza e ateismo è qualcosa che i fondatori della scienza moderna avrebbero trovato sconcertante. E’ noto da tempo che le figure chiave nella rivoluzione scientifica del XVII secolo hanno accarezzato sincere convinzioni religiose». Inutile fare lo sterminato elenco (che potete trovare qui), egli ne cita solo alcuni: Copernico, canonico della cattedrale di Frombork in Polonia; Keplero, il quale riteneva che le sue leggi del moto planetario avevano catturato il piano divino dell’universo; Roberto Boyle, il padre della chimica moderna, il quale «era un modello di pietà cristiana e credeva che i progressi scientifici avrebbero dato sostegno alla verità del cristianesimo»; Isaac Newton, il quale «scrisse molte parole in più su argomenti teologici che su materie scientifiche», e così via. Certamente ci sono stati numerosi scienziati non credenti, ma «ciò che è particolarmente significativo» degli scienziati credenti già citati, «è che la loro scienza si basava fondamentalmente su ipotesi religiose circa la liceità e l’intelligibilità matematica del mondo naturale». Cioè, era proprio la teologia cristiana a spronarli nello studio della Natura: dalla creatura al Creatore. «La credenza teistica», ha continuato il celebre storico australiano, «era parte integrante delle loro indagini scientifiche e ha fornito un fondamento metafisico fondamentale per la scienza moderna. Le vestigia delle convinzioni teologiche di questi pionieri della scienza moderna può ancora essere trovato nel comune presupposto che ci sono leggi di natura che possono essere scoperte dalla scienza».
Harrison ha riconosciuto che dopo Darwin qualcosa è tuttavia cambiato, sopratutto per la strumentalizzazione che venne fatta del suo lavoro da parte di intellettuali laicisti e positivisti. L’evoluzione mette effettivamente in difficoltà alcune aree del protestantesimo cristiano, eppure, scrive, «Darwin stesso era abbastanza astuto da rendersene conto. Il grande scienziato era molto probabilmente ancora un teista quando scrisse “l’ Origine delle Specie”, e in una lettera scritta vent’anni dopo la sua pubblicazione, ha dichiarato che era “assurdo dubitare che un uomo potesse essere un teista ardente e un evoluzionista». La sua perdita di fede, ha ricordato ancora, è dovuta all’esistenza del male nel mondo e non dalle sue teorie scientifiche. Questo, ha spiegato lo storico, «ha poco o niente a che fare con il progresso della scienza».
Chi sostiene che la scienza abbia preso il posto della religione, compie una «generalizzazione grossolana». Attraverso un semplice esempio, Harrison ha rivelato quale sia il compito della scienza (spiegare il “come”) e quale quello della religione (spiegare il “perché”): la scienza spiega come e grazie a cosa voi state leggendo queste parole, ma non può dire nulla sul perché le stiate leggendo. «La distinzione tra questi due tipi di spiegazioni», ha sottolineato, «risale al filosofo greco Socrate». Egli «ci lascia alcun dubbio su quale sia la più soddisfacente [...] aveva abbandonato l’indagine del mondo naturale agli inizi della sua carriera filosofica, al fine di dedicarsi alle domande che riteneva essere di maggiore importanza». Infatti la sua tesi era che «le questioni di importazione definitiva per gli esseri umani hanno a che fare con la verità, la bellezza e bontà. Sono questi i valori per cui è stato disposto a sacrificare la sua vita». Aveva pienamente ragione: un uomo può vivere benissimo anche non sapendo se è la Terra a girare attorno al Sole o viceversa, ma non può fare altrettanto senza arrivare ad una considerazione sul senso del suo esistere.
Proprio per questo, ha concluso lo storico, «la maggior parte dei filosofi della tradizione occidentale, e in effetti la maggior parte delle tradizioni religiose del mondo, hanno dichiarato che una spiegazione soddisfacente delle cose di maggiore interesse per gli esseri umani richiede un riferimento ad una realtà trascendente». Lo ha fatto ad esempio uno dei più grandi filosofi del Novecento, Ludwig Wittgenstein: «Ritengo che, anche se tutte le possibili domande scientifiche avranno risposta, i problemi della vita non saranno affatto stati toccati».