C’è qualcosa di molto strano nell’omicidio di Boris Nemtsov, importante rappresentante del frammentato schieramento liberale russo ma soprattutto oppositore di Putin. L’unica certezza che c’è in queste convulse ore è che Nemtsov è stato ucciso da alcuni sconosciuti nella tarda serata di ieri, a pochi metri dalla Piazza Rossa. Il resto si sintetizza in una semplice domanda: cui prodest? Boris Nemtsov apparteneva alla prima generazione politica post-sovietica, quella di Eltsin e dei suoi oligarchi: tra il 1997 e il 1998 era arrivato alla carica di vice Primo Ministro, ma la sua stella aveva iniziato a calare subito dopo, con l’uscita di scena di Eltsin e l’arrivo al potere di Putin. Nei primi anni Duemila, nel tentativo di arginare l’ascesa dell’ex colonnello del Kgb, Nemtsov aveva stretto un’alleanza con Mikhail Khodorkovskij con l’obiettivo di costituire un forte partito d’opposizione in grado di battere Putin alle elezioni presidenziali del 2004, ma tutto naufragò per via delle ben note vicende politico-giudiziarie dell’ex petroliere.
Da allora, nonostante la sua autorevolezza, non riuscì più a ritagliarsi uno spazio nei piani alti della politica russa. Fu protagonista delle proteste contro Putin alla guida del Movimento Solidarnost’ e diede vita ad un ambizioso progetto politico, il PARNAS, che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto essere l’embrione di un ampio schieramento liberaldemocratico e che invece pagò il prezzo della diaspora dei liberali russi, non conquistando neppure un seggio alla Duma alle politiche del 2011.
In queste prime ore di sgomento, viene facile supporre che a far uccidere Nemtsov sia stato Putin: era un suo oppositore, creava problemi con i suoi attacchi politici e quindi bisognava chiudergli la bocca. Il ragionamento non fa una grinza. Ma forse è proprio questa fluidità a destare qualche dubbio. Nemtsov non preoccupava più di tanto l’establishment russo, che al di là del sostegno al governo ucraino o delle denunce di corruzione indirizzate a Putin e al suo clan, non lo riteneva pericoloso quanto un Khodorkovskij o un Navalnyj. Non sarebbe mai riuscito a dirottare dei voti e dei consensi verso se stesso o un candidato da lui appoggiato. Il peso politico del povero Nemtsov era scarso, ma adesso da morto diventa pari a quello di un macigno, perchè inevitabilmente darà fiato alle trombe di chi, in patria come all’estero, riterrà Putin il mandante dell’omicidio.
Putin, si sa, è dotato di una spiccata intelligenza politica (peraltro riconosciutagli da molti) degna di un machiavellico “Principe”. Per quale motivo, allora, in un momento in cui la tensione tra Occidente e Russia è alle stelle, il leader russo avrebbe dovuto avere l’assurda idea di assassinare così platealmente un proprio oppositore, con gravi e prevedibili conseguenze nei suoi confronti? L’ultimo a cui questa morte può portare vantaggio è proprio Putin: il cadavere eccellente di Nemtsov rischia infatti di creargli molti problemi, in un momento in cui di questioni aperte sul tavolo ne ha già molte.
E’ quasi scontato che le piazze di Mosca, San Pietroburgo e delle grandi città russe torneranno a breve a riempirsi di manifestazioni contro l’attuale potere russo, perchè la morte di Nemtsov ridarà forza a quei movimenti della piazza (di cui lo stesso faceva parte) protagonisti della campagna elettorale 2012, e poi spariti soprattutto perchè incapaci di darsi un coordinamento tale da poter concorrere come reale opposizione alla contesa politica russa. Con l’economia che langue e l’inevitabilità di riforme impopolari, al Cremlino le tensioni di piazza non servono affatto. Putin in questo momento non si può permettere un nuovo scontro con l’opposizione, perchè rischia di uscirne malconcio. Se dunque al governo serve la pax sociale e se Nemtsov non costituiva un’insidia per il potere russo e nemmeno contava tanto in termini elettorali, perchè dunque Putin avrebbe dovuto essere così masochista da far eliminare fisicamente un suo avversario, generando così un’ondata di indignazione mondiale contro se stesso?
Il cosiddetto “lavoro pulito”, come negli ambienti dell’intelligence viene definita l’eliminazione di un soggetto scomodo, prevede che tutto si svolga in maniera impercettibile per chi è intorno. Chi ieri sera ha colpito a morte Nemtsov sul Moskvoretskij Most sembrava invece che di rumore ne volesse fare tanto, e di proposito. Un comportamento decisamente anomalo per un omicidio politico teoricamente addebitabile al Cremlino: per neutralizzare i pesci piccoli, gli eredi del Kgb di solito adottano tecniche molto subdole che vanno dall’incidente stradale all’avvelenamento, riservando ai grossi calibri varie manovre di delegittimazione, come scandali finanziari e di corruzione, già utilizzati con i già citati Khodorkhovskij e Navalnyj. Come loro due, anche Nemtsov era vulnerabile per via del suo passato nel clan Eltsin e, se fosse stato necessario, di sicuro gli archivi segreti dei servizi avrebbero offerto uno scandalo di corruzione ad hoc per affondarlo. Nei piani alti della politica russa si usa così fin dai tempi dell’Urss, perchè porta più vantaggi una semplice delegitimacija che una plateale esecuzione di piazza.
Per questa sua illogicità, e a meno che Putin e i suoi non siano completamente usciti di senno, l’omicidio di Boris Nemtsov potrebbe nasce presumibilmente fuori dalle mura del Cremlino, se non della Russia stessa: troppo eclatante e soprattutto troppo scomodo per nascere dal cinico pragmatismo da ex agente segreto di Zar Vladimir. Forse ha ragione l’ex presidente sovietico e Nobel per la Pace Mikhail Gorbaciov, che oggi definisce l’assassinio di Nemtsov «un tentativo di destabilizzare il Paese innescando tensioni tra l’opposizione e il governo».