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Un film che riesce a fotografare un ambiente che della sua sacralità ne ha fatto un simbolo nel mondo tanto da divenire luogo di pellegrinaggio e speranza per molti.
La Hausner tratteggia, attraverso efficaci piani sequenza, momenti significativi di un pellegrinaggio in cui la giovane paraplegica Christine (Sylvie Testud) riesce ad incarnare perfettamente una figura ormai provata nell'animo, ma senza per questo manifestarlo apertamente, se non attraverso un viso che dissimula il suo scetticismo, e che ricerca negli altri una condivisione apparente, una complicità degli affetti che sembra non esistere, in cui emergono progressivamente gli aspetti più umani e veri delle persone che lì vi si recano, per una speranza di guarigione. Speranza che riguarda quasi tutti, anche coloro che dovrebbero sostenere ed accompagnare coloro, che più di ogni altro vorrebbero un miracolo e che la Chiesa con la sua dottrina propina come soluzione non così facilmente ottenibile, perché quello che conta è prima di tutto la guarigione dell'anima, un'anima che i più sembrano non essere interessati a curare o guarire perché sono quelle membra malate, quei fisici provati dalla malattia il vero miracolo e la sola guarigione cui aspirare. Salvo poi accogliere passivamente le risposte evasive, o meglio dettate dal credo religioso di coloro che sono i ministri di un culto che fonda la sua forza sulla fede e che debbono giocoforza sostenere e convincere le persone a credere in tutto quello che le circonda.
Chi pare non credere più sono invece coloro che, quali volontari dell'Ordine di Malta, di fronte a tanta sofferenza, si ritrovano a seguire ormai con scetticismo tutta questa peregrinazione costante, questa smisurata preghiera, che la Hausner raffigura con un rigore figurativo che trova un contrappunto ironico nei momenti di umanità di quei volontari, che trascorrono il loro tempo a vivere la loro vita al di là dell'ambiente in cui si ritrovano a lavorare, spendendo anche barzellette che denotano il dubbio sulla volontà ultima di Nostro Signore.
La regista, infatti, pare volercelo ricordare abilmente attraverso una serie di sequenze che dimostrano tutta la fallacia di una fede che viene superata dall'invidia ed il rancore di coloro che assistono ad un potenziale miracolo, per poi dubitarne al primo accenno di ricaduta verso la malattia, invidia che la stessa Christine saprà ammettere solo nel momento della confessione con il religioso, mentre nei confronti degli altri saprà essere sorridente e in grado anche di sperare e confidare in un futuro che le sequenze finali, in un raggelante silenzio rotto dalle parole della canzone Felicità di Albano e Romina, suonano come una stridente beffa finale o forse una lettura disillusa e razionale o forse un dubbio rancoroso e pieno di dolore verso un'umanità, che anche di fronte al sacro non può rinnegare il proprio egoismo e allora "lunga vita alla nuova carne" verrebbe da dire vedendo il miracolato che, come un novello reverendo O'Blivion, si rivolge ai neopellegrini, manifestando i poteri taumaturgici delle acque di Lourdes, seppur il dubbio verso questa realtà immaginata e immaginifica permanga per alcuni di loro e chissà se permarrà anche per la dolce Christine.
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