1963, Ingmar Bergman.
Con "Luci d'inverno" completiamo la "Trilogia del silenzio di Dio" o anche "Trilogia religiosa", dopo aver ammirato (in ordine di visione) "Il silenzio" e "Come in uno specchio". Chiudo l'introduzione dicendo che questo è un altro immenso capolavoro a mio parere. Da oggi Ingmar Bergman insieme a Luchino Visconti occupa lo scranno più alto del mio personale Olimpo.
Lo introduco con la stessa introduzione dell'ottima pagina wiki:
"Il film venne realizzato in una piccola città della Svezia centrale, Falum poi designata per la prima mondiale del film che si devolse a beneficio del restauro della chiesa. Il film vinse il primo premio alla "VIII Settimana Internazionale del film religioso" a Vienna e, ex aequo con Il buio oltre la siepe di Robert Mulligan, vinse nel 1963 il Gran Premio OCIC (Office Catholique International du Cinèma, organizzazione cattolica che si occupa di cinema) con la seguente motivazione: "Illustra in modo straziante il tormento che costituisce per ogni anima profonda il "silenzio" di Dio"."
Aggiungo solo che il premio OCIC lo vinse anche "Come in uno specchio" l'anno prima. E' un fatto interessante, questi film non sono certo apologie della vita religiosamente ispirata, perlomeno non nei termini che comunemente si pensa. Sono film sul dubbio religioso, contro ogni certezza in materia, senza per questo essere antireligiosi però chiaramente critici. La motivazione OCIC del 1963 è da me sottoscritta e ineccepibile, poi vedremo perché.
Ancora un Kammerspielfilm (cinema da camera), con la trama che si svolge in una sola giornata, se possibile ancora più diretto e duro sull' "argomento dio" del precendente. Se in "Come in uno specchio" c'è ancora un certo uso della metafora, e rimane margine interpretativo e quindi speculativo in potenza, qua no, i comportamenti sono flagranti, i riferimenti autobiografici espliciti, le frasi lentamente pronunciate nitide e chiare, da visi ripresi con uguale dettaglio (primi piani da lezione di Cinema, e non dirò più nulla della qualità delle riprese che pure meriterebbe). Ci sarà una sola eccezione.
Siamo in Svezia nei primi anni '60 e in una piccola chiesa di provincia il pastore luterano Tomas (Gunnar Björnstrand, immenso), da pochi anni vedovo, celebra la messa davanti a un pugno di persone, organista compreso. Fra queste c'è Marta, sua spasimante è lì solo per lui e poi la scopriremo essere molto poco credente (Ingrid Thulin, qua resa irriconoscibile ma per me di una bellezza incommensurabile quanto la sua bravura di attrice). Marta entrerà in gioco poi. In prima battuta, al termine della liturgia, Tomas incontrerà i coniugi Persson: Jonas (Max von Sydow) e Karin (Gunnel Lindblom, vedi quanto detto per la Thulin). E' un incipit carico di pathos, quella solennità tenace anche se formale di Tomas con quel crocifisso dietro che non è appeso ma sostenuto dalla statua di un uomo, che particolare rappresentazione quella, cosa vuol dire?, che sono gli uomini appunto a portare avanti il divino? ma il divino non dovrebbe essere qualcosa di assoluto? Mi fermo qua a riguardo, divagherei... Piccolo tocco umoristico l'organista che gli scappa uno sbadiglio prima di attaccare a suonare, cosa che poi farà come un automa tanta la sua ripetitiva conoscenza di cosa eseguire, controllando l'orologio per vedere quanto ancora gli manca. Geniale, e tu spettatore non hai più incertezze sul fatto che quella cerimonia fosse stantìa, fatta perché andava fatta.
Hanno 2 figli i Persson, Karin poi è incinta. Jonas è il motivo dell'incontro, ha una "strana" paranoia depressiva con impulsi suicidi, legata al fatto che i cinesi dispongono della bomba atomica. Talmente strana che m'è "costata" una piccola indagine ed effettivamente nel 1964 la Cina ufficialmente entrò tra i paesi con l'atomica (fonte) per cui plausibile che nel 1963 il film ne possa parlare. E' così strana questa paranoia? Se si è visto il magnifico documentario "The Atomic Café" il sorriso sarcastico si spegne subito, il terrore nucleare portò in America come nel mondo a comportamenti bizzarri per dire poco. Certo, da lì a pensare al suicidio ce ne corre, ma con questo pretesto ci arriva un messaggio forte e cioè che in un animo sensibile oltre norma, di un padre, quel tipo di minaccia può arrivare a determinare un senso d'impotenza verso il proprio destino e quello dei propri figli tale da portare a quei pensieri. Non è irreale, solo stupefacente in quel contesto, non ci pensi d'acchito. Quanti padri, o madri, si suicidano con tutta la prole per difficoltà esistenziali o anche semplicemente economiche?
Tomas cercherà di consolare Jonas, solo che presto ammetterà la sua impotenza proprio di fronte a lui. Non è un modo sbagliato d'incoraggiare qualcuno, porsi al di sotto di lui e rendersi compartecipe dei suoi stessi drammi, però alla osservazione di Jonas - Perché vivere? - Tomas ammutolisce, non sa rispondere, rilancerà la discussione su altre prospettive ma quella pausa sarà fatale, renderà il resto vano. D'altronde Tomas non fingeva, era davvero anche lui in un momento personale grave. Jonas si suiciderà poi, e Tomas andrà a trovarlo ancora sdraiato in terra accanto al fucile. Porterà personalmente la notizia alla moglie, che rifiuterà, cortesemente, di pregare insieme, e ogni sorta di consolazione; era come se quella notizia l'aspettasse ormai, mancava solo l'ambascia.
Prima del suicidio prenderemo conoscenza dell'accennata relazione non corrisposta tra Tomas e Marta. Lei lo ama e lo accudisce, lui no, non riesce ad amarla, o non vuole, questo non mi è chiarissimo ma è certo che fra loro c'è un muro insormontabile e anche che Marta è la sola persona che lo capisce bene, ne sente i reali sentimenti. C'è un momento in cui Tomas si apre, dice di soffrire intimamente per la mancaza di dialogo, sente - Il silenzio di dio - dice, e questa affermazione, che titola anche la trilogia, compare solo in questo film, ed è pregnante. Una vita spesa per un essere che non ti ha mai parlato e che quando vorresti lo facesse continua a restare in silenzio. Non si tratta di sentire una voce parlata, ma una voce interiore, o anche dei segnali della presenza di dio nella vita dove invece si percepiscono sofferenze inspiegabili. Marta glie lo dice chiaro quel che pensa:- dio non parla perché dio non esiste, è semplice -. Semplice per lei, un colpo per lui. E prosegue Marta:- "[...] la vita è già tanto complicata per aggiungervi degli elementi soprannaturali [...] io ho un solo desiderio, di vivere per qualcuno, ed è difficile". Non devo aggiungere nulla a queste parole, nemmeno di elementi naturali. Forse a qualche lettore o visore del film non è ovvio il "vivere per qualcuno", ma quello è un suo problema, molto serio, che certo non posso risolvere io.
Tomas s'era recato in macchina con Marta a visitare il corpo di Jonas. Sì, il corpo ha visitato, non l'anima con la quale non riesce a trovare contatto perché l'ha perso anche con la sua propria. E' un momento emblematico del suo malessere, del senso d'impotenza, d'inadeguatezza al ruolo che ricopre ed alle aspettative che le persone ripongono in lui. Gunnar ha toccato l'apogeo dell'interpretazione drammatica, riesce a muoversi verso il corpo, simulando un personaggio che simula eppure è sincero. Tomas non è freddo, intendiamoci, però non riesce a fare quel che dovrebbe, ci prova fallendo e in quel momento pensa a sé stesso, se dio non esiste allora quella di Jonas è solo una carcassa. Questa sottile sfumatura, di operare con una sorta di formalità che non si vorrebbe fosse tale, va' colta e poi ci si inchinerà sia alla trama suggestiva che all'attore, a quello che ha realizzato. Non dispongo di termini migliori, spero almeno di aver reso l'idea.
Ecco ora l'eccezione di cui dicevo prima.
Al ritorno dal luogo dove Jonas è morto Tomas e Marta in macchina si fermano ad un passaggio a livello. Che luogo che è quello, in quella immensa piana il binario assurge a retta infinita, non pare possibile che ci si debba fermare. Lì Tomas attacca col dire - i miei genitori han voluto che diventassi pastore... - e poi prosegue a parlare, ma noi non sentiremo nulla, la sua voce coperta dallo sferragliare del treno. Se c'erano ancora dubbi sull'aspetto autobiografico dell'opera vengono dissipati. Ingmar Bergman, nelle aspettative (fortunatamente) disattese del padre, sarebbe appunto dovuto diventare pastore luterano, come il genitore. Non ci dirà però il seguito, la frase per noi si ferma lì. A quel che ho saputo e letto in giro Ingmar volle ed ottenne che il film fosse visto dal padre, a lungo indifferente alla carriera artistica del figlio, anche se non ostile né osteggiante. Pare che il padre apprezzò molto in film e non riesco nemmeno ad immaginare cosa il regista possa aver provato in quel momento, sono emozioni che possono chiudere una carriera tale la loro portata, ci si può sentire arrivati, ma (ancora una volta fortunatamente) non andò così.
Tomas è quindi l'Ingmar Bergman che non fu, e probabilmente in buona parte quello che suo padre fu, perlomeno agli occhi del figlio.
Veniamo ad ogni modo a sapere dal film, dallo stesso Tomas, la sostanza del tormento interiore, che lo blocca e lo costringe ad aggrapparsi ai formalismi liturgici e del ruolo per trovare modo e motivo nel proseguire la sua opera. Parlando con Marta in un'altra occasione dice:
"tutte le volte che ho messo dio a confronto con la realtà l'ho visto diventare feroce, distante e crudele, un mostro quasi
mi sono sforzato di preservarlo dalla vita e dalla luce
e l'ho cercato nel buio e nella solitudine
(pausa)
se dio non esistesse nulla avrebbe più importanza
la vita avrebbe una spiegazione, sarebbe un sollievo
la morte è solo una frattura, la fine del corpo e dell'anima
la crudeltà della gente, la sua solitudine, i suoi timori...
tutto sarebbe chiaro come la luce del giorno
le sofferenze non dovrebbero più essere spiegate
non esisterebbe un creatore... né un tutore
niente pensieri"
Questo passo ha la sua chiarezza nel dubbio che va' ad insinuare a un credente, così come può essere il manifesto critico di chi non crede. Essendo tra i secondi non posso che concordare appieno con la conclusione perché per me non c'è il condizionale, per me dio non esiste e basta, quindi non occorre il "se". Massima sintesi è questa frase: "le sofferenze non dovrebbero più essere spiegate". L'ho detto altre volte, forse anche nelle recensioni, sicuramente in Fanfare, che per quanto comprensibile il bisogno di rispondere alle sofferenze dell'uomo tramite le religioni, in ultima analisi mi sono risultate una forma di arroganza proprio per questo, per la pretesa di voler spiegare anche l'inspiegabile. Sottolineo: è una pretesa. Inutile, non porta a nulla se non ad aggiungere una malattia alle altre che già la natura c'impone, e cioè l'illusione. Anche secondo me "la morte è solo una frattura, la fine del corpo e dell'anima", chiaro che la vita non può essere spiegata col semplice agglomerarsi di cellule, c'è qualcosa di più negli uomini come negli animali, ma cosa sia non so, non posso saperlo e non pretendo di saperlo, allora continuerò per sempre ad ammirare Giordano Bruno, e la sua visione panteistica che alla fine mi porta ad avere rispetto per tutte le forme di vita in quanto portatrici della stessa energia che mi fornisce movimento e pensieri, e quindi mi dà un'Anima.
Ritorna un concetto di cui abbiamo parlato in "Come in uno specchio", quando dice:- tutte le volte che ho messo dio a confronto con la realtà l'ho visto diventare feroce, distante e crudele, un mostro quasi -. Ricordate Karin che se lo vide apparire come un ragno enorme? E' la pazzia allora, in forme diverse, che accomuna Karin e Tomas?
Ho già scritto anche troppo, ma ho il dovere di chiudere così come chiude il film, riportandoci prepotentemente al tema della trilogia. Siamo nella scena che precede il finale. Tomas, sempre con Marta, si reca nella seconda chiesa dove esercita. Il sacrestano gli esporrà una sua riflessione sulla Passione di Gesù, dicendo in sostanza che 4 ore tra tortura, salita al Golgota e crocefissione non sono state la sua sofferenza più dura, ché quella dell'anima fu la più grande. Quando si rivolgerà al padre dicendo "dio, perché mi hai abbandonato?" cosà esprimerà se non un dubbio profondo, quale padre, non dico dio ma un semplice padre, non farebbe qualcosa per il proprio figlio sottoposto a un tal supplizio se avesse davvero tutti i poteri che gli si attribuisce? Non c'è risposta, chi ha fede la cerca "nella fede" come dice lui, e cioè nel dogma.
Tomas non farà altro che ascoltare il sacrestano senza replicare, può solo concordare. E' "Il silenzio di dio", al quale non c'è né mai ci sarà soluzione. Nonostante tutto, c'è da dire messa, anche se la chiesa è vuota...
Come un romanzo breve e profondo, avrei dovuto riportare l'intera sceneggiatura punteggiature comprese. Breve, dura circa 80', ho impiegato quasi 3 ore a vederlo, per fermarlo, prendere qualche appunto, rifletterci un attimo e ripartire. Alla fine c'è voluto anche un po' per tornare sulla terra, perché sentirsi dire, IN QUEL MODO, che esiste un Amore in grado di sostenere e dare senso della vita, come concetto assoluto quindi né anti né pro ma semplicemente a-religioso, ti fa sprofondare nel mare delle tue superficialità che non puoi credere essere così ampio.
Non vi ho rovinato nulla della visione raccontandovi il film anche in molti dettagli, perché QUEL MODO è da scoprire: nel modo di riprendere gli attori, di farli recitare, nei toni delle voci (a questo proposito encomio ai doppiatori). E' ciò che scatenerà le vostre personali riflessioni, non sul film che lo adorerete se il genere può piacervi, ma su voi stessi.
Robydick
p.s.:
Un'ultima cosa prima di lasciarvi ai frame.
Involontariamente, definendo il film un romanzo breve e profondo, anche per attinenza di argomento, mi sento in dovere di consigliare un piccolo capolavoro di Lev Tolstoj, poco noto, una lettura obbligatoria a mio parere: "La morte di Ivan Ilic".
Magazine Cinema
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