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Caltanissetta, 31 ottobre 2011 – Le indagini per la strage di via D'Amelio sono da rifare. Nei giorni scorsi, infatti, la corte di appello catanese ha sospeso la pena – così come richiesto dal procuratore generale di Caltanissetta Roberto Scarpinato – per sei degli otto detenuti a cui era stata inflitta la pena dell'ergastolo per la strage del 19 luglio 1992. Rimangono in carcere Gaetano Scotto, che deve espiare altre condanne definitive, e Vincenzo Scarantino, il pentito che pentito non è, anch'egli alle prese con altre condanne.
I giudici etnei, adeguandosi alla giurisprudenza in materia, hanno sostenuto come le nuove rivelazioni di Gaspare Spatuzza ribaltino il quadro sull'attentato al giudice Paolo Borsellino, ma che queste, da sole, non bastino a chiedere la revisione dei verdetti di colpevolezza. Le responsabilità di quelli che – a questo punto – diventerebbero i nuovi accusati per la strage (in primis proprio Spatuzza), devono essere accertate con sentenza passata in giudicato, altrimenti non può rifare alcun processo. Da qui la decisione di scarcerazione, dato che i sei sarebbero dovuti rimanere in carcere, in maniera ingiusta, come sottolineano i giudici, fino alla definitiva sentenza di punizione dei veri colpevoli.
Ancora una volta si rivela fondamentale il ruolo dei pentiti. Gaspare Spatuzza da un lato, Vincenzo Scarantino dall'altro. Il primo, infatti, auto-accusandosi del furto della Fiat 126 utilizzata come autobomba sconfessa le dichiarazioni del secondo (e scagionando così il gruppo del boss Pietro Aglieri).
Il ruolo di Scarantino, a questo punto, passa da pentito-chiave per i magistrati a falso pentito, nonostante fin da subito fossero state denunciate le pressioni con cui gli inquirenti avrebbero estorto le confessioni necessarie a creare la posizione di Scarantino, i cui familiari parlarono da subito di verbali studiati a memoria, di istruzioni scritte a margine dei verbali, di suggerimenti e aggiustamenti delle dichiarazioni fornite. Lo stesso (ex) super-teste aveva raccontato di essere stato più volte minacciato di morte (per impiccagione o per iniezione del virus dell'Aids) e di sevizie degne delle prigioni di Guantanamo Bay, come la privazione del sonno. Nella sua prima ritrattazione – siamo nel 1998 - sostenne addirittura di non sapere nemmeno dove fosse via D'Amelio. I poliziotti che, ai tempi, si occupavano delle deposizioni, sono oggi indagati come autori del depistaggio in un'inchiesta ancora lontana dall'essere chiusa.
Le nuove indagini si starebbero concentrando, nuovamente, sulle modalità di esecuzione dell'attentato, che stando alle nuove ricostruzioni – fornite dal nuovo pentito Fabio Tranchina – vedrebbero Giuseppe Graviano (colui che, stando alle ricostruzioni, azionò il pulsante dell'autobomba) nascosto in un giardino a ridosso di via D'Amelio, ricostruzione che escluderebbe anche il filone legato al Castello Utveggio e dunque all'interesse dei “settori deviati” di Bruno Contrada nella vicenda, anche se sul ruolo dei servizi i magistrati non hanno trovato ancora un punto di accordo.
Per accertare la vera importanza delle dichiarazioni dei pentiti, già a pochi mesi dalla strage, sarebbero bastati dei semplici sopralluoghi, come quello che sarebbe stato necessario per verificare la fondatezza delle informazioni fornite da Salvatore Candura, il primo ad auto-accusarsi del furto dell'autovettura e che non ha saputo neanche indicare dove l'auto fosse stata parcheggiata. Sopralluogo che non fu mai fatto.
Se non si arriverà, in un tempo ragionevole, alla verità, qualcuno potrebbe anche iniziare a raccontare la storia che, in realtà, la strage di via D'Amelio non c'è mai stata.
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