Anna Lombroso per il Simplicissimus
Più volte abbiamo scritto che l’opposizione alle misure di sostegno alla privatizzazione dell’istruzione e alla sperimentazione nella scuola di un modello politico e sociale accentratore e autoritario che vanno sotto il nome di “Buona Scuola” , non può e non deve riguardare soltanto gli insegnanti o i genitori o gli alunni, ma tutti i cittadini.
Perché non è una riforma ma una scatola vuota che verrà poi riempita di provvedimenti “eccezionali”, quelli dettati da emergenze fittizie , nutrite artificialmente per legittimare anomalie che diventano regola, di sanatorie straordinarie elargite come riparazioni occasionali, come oboli, come bistecchine in bocca agli affamati.
Perché mette al centro una figura dispotica, quella di un datore di lavoro modellato sui manager e gli imprenditori che hanno ispirato il Jobs Act, investiti del potere eccezionale, promosso a normale e necessario per la competitività e la formazione della futura forza lavoro, di assumere, promuovere, rimuovere, retrocedere licenziare, abilitata ad abbassare il salario, aumentare l’orario, favorire o penalizzare il lavoratore secondo criteri discrezionali e arbitrari.
Perché consolida la potenza del ricatto come sistema di governo, ricatto esercitato nei confronti degli “addetti ai lavori”, dell’arena dei soggetti variamente interessati, agitando lo spauracchio di azioni criminali e disfattiste di docenti scioperati, dei precari sottoposti a angosciose docce scozzesi, dei cosiddetti garantiti, indicati come parassiti responsabili della esclusione da prerogative e diritti dei colleghi soggetti a condizioni di insopportabile provvisorietà, sia pure di lunga durata, di rappresentanti e parlamentari esortati a adempiere con celerità a compiti notarili di registrazione delle decisioni dell’Esecutivo, dietro la minaccia della perdita di consenso e dell’attribuzione della colpa di non aver risolto un “problema”, che ormai sono soltanto problemi gli immigrati, le pensioni, la retribuzione dei dipendenti statali, l’occupazione, l’abitare nelle città, il territorio, la salute, gli anziani, per non dire delle famiglie minacciate da costumi e inclinazioni inaccettabili.
Perché conferma le disuguaglianze che esistono già, quelle territoriali e geografiche, quelle legate al censo e alla “posizione sociale” delle scuole e delle famiglie che gravitano intorno a istituti divisi non solo virtualmente in gerarchie, dove ad essere premiati e quindi potenzialmente più competitivi saranno gli istituti alla cui gestione contribuiranno in forma “volontaria” i padri dei figli di papà, con il valore aggiunto di finanziamenti per l’ordinario e lo straordinario.
Perché un cattivo dirigente, poco autorevole, poco determinato, poco attivo finirà per circondarsi di insegnanti affini, per far decadere il livello del suo istituto, per assecondare il progressivo impoverimento della didattica, non potendo o sapendo aspirare agli strumenti per “raggiungere i più alti gradi degli studi”, nnon potendo o non sapendo “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. E la stessa colpa ricade sui genitori che non appartengono a ceti privilegiati.
Perché anche le materia ed in particolare quelle ad alto valore aggiunto umanistico, sono considerate optional arcaici: l’insegnamento di storia dell’arte e delle scienze sarà soggetto a scelte strategiche decise a livello ministeriale. Quindi con tutta probabilità penalizzate in quanto non corrispondono agli obiettivi di una ideologia che condanna a non possedere i modi, gli strumenti, la preparazione di base per godere della bellezza, della conoscenza, della cultura.
Perché “enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”. Così le nostre tasse servono a collaborare all’istruzione dei figli di serie A, a finanziare le scuole private, sia quelle di eccellenza per dinastie di ricchi e arricchiti, che quelle confessionali e persino i distributori di diplomi e in Juke box di maturità, pronti a scaricare aspirabti laureati a Tirana.
Perché l’accento messo sulla valutazione è esemplare della priorità che viene attribuita alle teorie, e alla pratica della “cultura” aziendale e finanziaria, secondo la quale il valore di persone e prestazioni dipende dalla capacità di mettersi al servizio di un’organizzazione, garantendo deferenza e dipendenza, rispettando obiettivi legati unicamente al profitto, premiando fidelizzazione e ambizione personale.
Perché l’iter del provvedimento è diventato la pièce de rèsistence della forza muscolare, intimidatoria e autoritaria del “nuovo” del riottoso bullo di Palazzo Chigi e del suo sogno distopico, che vuole replicarsi attraverso la figura del preside per creare un ceto di uomini al comando, di volta in volta podestà, sceriffi, prefetti, padroncini, caporali, kapò, scekti tra quelli che dimostrano un’indole a spaccare teste di chi obietta, a denunciare chi manifesta, a zittire chi protesta, a escludere chi osa interferire, a punire e escludere chi commette il reato di lesa maestà.
E, non ultimo, perché ieri Fabrizio Rondolino, rivendicando la rappresentanza di quella maggioranza silenziosa che ha sempre parlato troppo – quella che ai tempi di Bava Beccaris e di Tambroni, ma poi via via negli anni mugugnava davanti i cortei di lavoratori e alle manifestazioni studentesche: andate a lavurà.. e lo dice anche oggi che non c’è lavoro – si è permesso di scrivere a proposito delle proteste degli insegnanti: ”Ma perché la polizia non riempie di botte sti insegnanti e libera il centro storico di Roma?”. Lui l’ha motivato come un richiamo alla disciplina: della quale i docenti dovrebbero essere custodi?, come un’esortazione perché l’ordine regni a Roma, la capitale dove invece il disordine della corruzione, dell’incompetenza, della speculazione, dello sfruttamento, delle differenze più inique imperano. Io spiego questa frase maldestra, provocatoria come lo sberleffo del Marchese del Grillo, infame come uno sleale tradimento nei confronti del lavoro, come il lamento frustrato e gretto di qualcuno che non conosce il coraggio di difendere la dignità sua, della cittadinanza e della democrazia. E prova una terribile invidia per chi invece ce l’ha e malgrado lui e quelli come lui ancora non si arrende e lo porta in piazza e lo alza come una bandiera, stracciata, sbiadita, ma nostra.