Tutti quelli che sono stati a scuola prima dell’era dei Ninja ricordano Catone il censore con il suo Carthago delenda est anche se ai ragazzini probabilmente sfuggiva il significato di quei fichi che giungevano freschi a Roma, testimonianza della rinascita economica dell’antica rivale. Ed è singolare come quell’aneddoto vecchio di quasi di 2200 anni fa abbia molto a che fare con l’oggi e l’importazione di presunti prodotti made in Italy, perché mentre allora i romani erano consapevoli che con il dominio del mediterraneo, l’importazione sempre più massiccia di schiavi, l’immigrazione copiosa e l’aumento della popolazione dovuta a condizioni di vita migliori, le risorse agricole dello Stivale, collinoso e montagnoso erano insufficienti. Oggi invece pare che questa consapevolezza sia andata smarrita e crediamo che i pistacchi di Bronte abbiano a disposizione territori ampi come l’Australia, i pomodori di Pachino l’India, gli uliveti una superficie grande come l’intera Europa , lardo di colonnata da far credere di essere nelle pianure del Nord America e via dicendo. Invece l’Italia pur avendo eccellenti prodotti di nicchia e una straordinaria tradizione culinaria, non ha autonomia alimentare e persino il cibo nazionale per eccellenza, cioè la pasta richiede l’importazione del 50% del frumento necessario, senza parlare dell’olio di oliva che dobbiamo importare per almeno il 30 per cento.
Una massiccia alleanza tra industria alimentare, media radical chef, commercio all’ingrosso, organizzazioni agricole ci fa credere che i prodotti italiani siano comunque i migliori, anche se derivano da filiere, coltivazioni, specie e allevamenti ormai ampiamente standardizzati in modo da vendere a prezzo maggiorato (per le industrie o il commercio, mica per il coltivatore) il prodotto italiano o nel peggiore, ma purtroppo più diffuso dei casi alimenti prodotti altrove e spacciati per italiani. Con questo bombardamento di italianità da strapazzo nessuno comprerebbe del buon olio spagnolo, pistacchi turchi, zafferano dell’Iran, pomodori cinesi, maiali dell’est, latte tedesco, melanzane polacche, peperoncini dalla Tahilandia e mille altre cose verso le quali si è fatto in modo di radicare un pregiudizio di fondo. Ed è ovvio che sia così: molti prodotti presentati ufficialmente come esteri non permetterebbero eccessivi ricarichi e non si presterebbero alla commedia degli equivoci. Solo quando si tratta di dar retta a fantasie e suggestioni assurde, come quella sul grano Kamut di cui siamo in pratica i soli consumatori al mondo, solo se ci dicono che mangiamo il grano dei faraoni (panzana stratosferica) prodotto in Canada allora siamo disposti a fare ponti d’oro all’importazione alimentare e a cadere nella trappola del commercio più astuto.
Del resto sappiamo benissimo per esperienza che i controlli, severi sulla carta, sono aggirabili con sorprendente facilità nel nostro Paese e francamente non si vede perché i controlli non ci possano essere sui prodotti importati di cui del resto non possiamo fare a meno e ci dobbiamo sottoporre all’import clandestino. Ed è ora di domandarci se “comprare italiano” aiuti il nostro settore agricolo e alimentare o non contribuisca invece a deprimerlo oltre che a rendere strutturali le truffe, esattamente come è accaduto quando i “nazionalisti” dell’automobile e i media corrivi se non complici, hanno potentemente contribuito a rendere la Fiat una marca minore .
Purtroppo è proprio così: il nostro settore agricolo alimentare non è stimolato a sviluppare il suo vero asso nella manica, cioè la diversità dei territori e dei microclimi, delle culture alimentari, della ricerca non solo dell’eccellenza, ma anche dello sviluppo delle caratteristiche dei prodotti, mettendosi invece sulla strada della produzione standardizzata. Una strada letale, almeno per molti settori, perché non abbiamo il territorio sufficiente per farlo e perché- è solo un esempio – se alleviamo la stessa razza di mucca “più produttiva” presente nelle stalle francesi o del Wisconsin, se il latte è in sostanza quello che viene fuori da un’alimentazione pressoché identica ovunque, anche la mozzarella industriale che ne verrà fuori sarà molto simile, senza tuttavia essere concorrenziale sul prezzo a meno di non strangolare il contadino. E non è certo un caso se tutte le maggiori aziende alimentari sono finite in altre mani.
Se imparassimo ad accettare i prodotti che vengono da fuori e che finiamo comunque per mangiare, se ci convincessimo, tanto per dirne una, che un soffritto è ottimo anche con l’olio spagnolo o greco, se usassimo il nostro solo per condire a crudo, ma pretendendo che sia ottimo, faremmo diminuire la pressione sul nostro sistema agroalimentare spingendolo a seguire la sua vera vocazione, senza impiccarlo a prezzi che lo impoveriscono o lo costringono ad alchimie se non a vere e proprie truffe o – altra faccia della medaglia – favoriscono produzioni “locali” sostanzialmente false e anonime che utilizzano procedimenti e prodotti di base identici a quelli della grande industria. Questo però colpisce interessi ormai consolidati, mentalità insufflate ad arte, luoghi comuni, visioni ristrette al presente e al massimo invece di indurre a ripensare il nostro modello con tutte le sue storture non riesce che far balenare l’idea di dazi da scaricare poi sui cittadini come avviene con la manifestazione al Brennero.