15 DICEMBRE – Non rimarrà certo nella storia del cinema questa quarantaquattresima opera di Woody Allen dall’accattivante titolo “Magic in the moonlight”, ma allo stesso tempo merita, per i fan del regtista, quantomeno una visione. Si tratta di una commedia gradevole, ben recitata dalla truppa di protagonisti (capitanati dal navigato Colin Firth e dall’incantevole Emma Stone), e dalla trama non eccitante, anche se con più di qualche passaggio interessante: un esperto prestigiatore, riconosciuto e rispettato a livello internazionale, viene chiamato in Costa Azzurra a smascherare in incognito una giovane medium, giunta dagli Stati Uniti per ingannare facoltose famiglie europee. Ovviamente da un’aperta (e reciproca) ostilità iniziale, la relazione fra i due si sviluppa secondo canoni cinematograficamente convenzionali, fino allo scontato lieto fine. Un film, insomma, in puro stile alleniano, che nulla aggiunge (ma neanche nulla toglie) all’immensa produzione del cineasta americano, reduce dal buon successo di “Blue Jasmine” (retto fondamentalmente dalla splendida interpretazione della divina Cate Blanchett), ma ancora lontano dalle vette di inizio millennio rappresentate dal cinico “Match Point”.
Allen dirige bene la sua squadra, sfruttando al meglio la fotografia di Darius Khondji e la meravigliosa colonna sonora in chiave jazz (anche se, fra gli altri brani, spicca la sempre-verde Nona Sinfonia di Beethoven) che donano profondità e intensità ad un’ambientazione davvero suggestiva: la Costa Azzurra e la Provenza degli anni Venti del secolo scorso. Ma il vero merito del regista newyorkese è quello di risultare, con la sua opera, un potentissimo promemoria per tutti noi. Il vero conflitto descritto nel film non è tanto fra l’investigatore e la truffatrice, ma fra l’uomo razionale e la donna passionale, fra il cinismo di chi non crede in niente (se non nella concreta scienza) e la magia di chi vuole credere non solo in una vita nell’aldilà, ma soprattutto al lasciarsi andare alle emozioni, alle sensazioni, all’istinto, alla libertà, accantonando giustamente le ragioni della mente per privilegiare senza ombra di dubbio quelle del cuore.
Già perchè il “Nichilismo” teorizzato da Nietsche, tanto in voga nel periodo in cui si sviluppa la vicenda, può essere superato di slancio grazie alla gioia di vivere e alla semplice consapevolezza di avere solo una vita a disposizione, e allora tanto vale viverla con il sorriso. In questo senso sembra evidente il contrasto fra la cultura europea incastonata fra le due guerre mondiali che hanno segnato il “Secolo Breve” e quella Americana, che volenti o nolenti è venuta, nella visione di Allen, a salvarci. In tutti i sensi.Il prestigiatore Stanley Crawford, quindi, viene portato per mano dalla bella Sophie Baker verso una nuova consapevolezza, un nuovo modus vivendi, un nuovo ciclo di vita personale. Un percorso che ci augureremmo di fare tutti, prima o poi, durante la nostra esistenza. Un insegnamento banale, semplice e non certo originale. Ma che ogni tanto, appunto, è necessario ricordare. E Allen si prende per tutti noi quest’impegno e lo porta a termine con questo “gioiellino”, la cui visione, quindi, nella sua leggerezza ci sentiamo tutto sommato di consigliare.
Ernesto Kieffer
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