Si fuese el trabajo tan bueno,
se lo hubieran guardado
los ricos para si solos!
Vecchio detto castigliano
Tutti i giorni la stessa cosa. Arrivo al lavoro e mi travolge come un’onda di disperazione, come un suicidio, come un vuoto che m’invade, come l’ustione di una pallottola nella tempia. Un lavoro troppo conosciuto, una sala macchine abbagliata dai neon e dei colleghi che certi giorni non si ha proprio voglia di ritrovare. Neppure il coraggio di cercare un altro lavoro. Troppo tardi. Tempo fa avevo cercato, avrei potuto fare l’infermiere all’ospedale psichiatrico, prof al liceo tecnico, e poi no, mancanza di coraggio per cambiare vita. Questo lavoro non mi ha mai soddisfatto, eppure non mi ci vedo più a imparare altre cose, altri gesti.
Si va avanti, ma non ci si abitua. Parlo al plurale perché non sono il solo ad avere questo stato d’animo: siamo tutti nella stessa barca. Siamo arrivati a sperare che l’azienda chiuda. Sì, che delocalizzi, che ristrutturi, che aumenti la sua produttività, che abbassi i costi fissi. Smettere, insomma. Basta con questo lavoro, essere liberi. Liberi, ma senza altre preoccupazioni.
Sappiamo che arriverà, ce l’aspettiamo. Come per il tessile, per le fonderie… un giorno l’industria chimica pesante non avrà più diritto di cittadinanza in Europa. Nessuno parla di questo malessere che investe gli operai che hanno superato la quarantina e che non sono più motivati da un lavoro fatto per troppo tempo, per troppo tempo subito. Un lavoro che si è dovuto salvaguardare perché c’era la crisi, la disoccupazione e bisognava essere soddisfatti d’avere l’impiego garantito, per poter continuare a consumare a scapito di vivere.
Nessuno ne parla. I sindacati lo nascondono, i padroni ne approfittano, i sociologi del lavoro non se ne interessano: i proletari non fanno notizia. Abbiamo dato il cambio alla squadra del pomeriggio, felice di lasciare il reparto. È il nostro turno, adesso, per otto ore.
Siamo seduti in mensa, attorno a una tazza di caffè. I cucchiaini girano fiacchi, abbiamo tutti lo stesso stato d’animo e anche, di già, la stessa fatica di fronte a questa notte che sarà lunga. Chi parla dell’inferno operaio? Non tanto per la fatica, ma per tutta questa vita consumata, una vita già troppo breve che il lavoro salariato logora ancor più.
Maledetta Fabbrica cura di Simona Mammano. Di Daniele Biacchessi, Alfredo Colitto, Patrick Fogli, Pierre Levaray, Valerio Varesi
Collana Senza Finzione
144 pagine
ISBN: 978-88-6222-128-3