L’eterno ritorno dell’uguale, e non per modo di dire, fa scuola con l’esperienza del Mali. Come in Afghanistan i Paesi europei, Italia compresa e Francia in testa, si fiondano in Mali urlando alla lotta al terrorismo. Danno così vita all’operazione Serval, in accordo col Presidente ad interim del Mali e con l’Ecowas. Solo stavolta a fare marcia indietro ci mettono solo tre mesi. Dall’11 gennaio scorso, quando la Francia ha dichiarato l’intervento, spinta da legami coloniali mai recisi, si pensa già questa settimana di ridurre l’intervento. Merito di un successo schiacciante dell’intervento? Non sembra, anzi sembra iniziato un tardivo periodo dei forse. Dopo l’iniziale tempestiva riconquista della capitale Bamako a discapito dei ribelli, l’avanzata si ferma. Non conosciamo ancora le sorti delle missioni collaterali, l’EUTM Mali, promossa dall’Unione Europea, la MISMA, promossa dall’Ecowas. Tutte iniziate in seguito alla risoluzione 2085 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, mirate ad aiutare la popolazione civile e all’addestramento dei militari contro la minaccia separatista e jihadista. Al momento conosciamo solo approssimativamente il numero degli sfollati, 270 mila, i quali versano nella condizione di rifugiati, intrappolati da qualche parte nel loro stesso Paese o fuggiti all’estero. Altri ancora, 70 mila circa secondo Medici Senza Frontiere, sono bloccati nel deserto della Mauritania, senza viveri né medicinali.
Quindi come in Afghanistan abbiamo una componente jihadista, di cui una frangia denominata Al Qaeda del Maghreb, abbiamo una popolazione separatista, i Tuareg, che appoggia gli islamisti e che è facilmente associabile nelle nostre teste ai Talebani. Perché l’intervento, al di là di quanto sia o no giusto, non è finora riuscito ad risolvere la situazione, forte di un’esperienza passata? Forse perché scomposto e tardivo, rispetto al colpo di Stato del marzo 2012 fatto dagli stessi soldati che combattevano le frange separatiste tuareg. Forse perché il governo instaurato dopo il Golpe è troppo debole e non dà alcun appoggio se non formale all’intervento. Forse perché i Tuareg dell’MNLA hanno dichiarato l’indipendenza del territorio dell’Azauad, che è durata poco più di due mesi e poi sono stati spazzati via da ben tre movimenti islamisti che hanno iniziato a praticare la sharia nella sua componente più rigida e irrispettosa dei diritti umani. Forse perché in Mali la conformazione territoriale è particolarmente ostile e i soldati brancolano alla cieca. Forse perché non ci sono Stati, come per l’Afghanistan l’Uzbekistan e il Tagikistan, che arginano le spinte jihadiste, ma anzi, con la crisi libica queste possono espandersi e cercare appoggio in tutta tranquillità. Forse perché ad avere paura adesso è la popolazione civile, compresi tutti i Tuareg e i musulmani che vengono scambiati per guerriglieri. Lo stesso presidente del Chad, Stato intervenuto nella missione MISMA, dopo le ingenti perdite, ha dichiarato la ritirata per l’impossibilità di fronteggiare la guerriglia. Di nuovo, come in Afghanistan, si cercano degli obiettivi, si intrecciano conflitti religiosi, spinte autonomistiche, lotte per il potere, desiderio di uscire da una crisi che sembra infinita. Si sprecano gli interventi sulla giustizia o meno di questa ingerenza degli altri Paesi. Difficilmente però questa volta resterà nei confini di uno Stato. Non resta che sperare nel successo di un intervento di carattere più umanitario.
Articolo di Sara Brilla Martinetto.
Foto Magharebia, licenza CC BY