di Valentina Redaelli Diario: Anno XIV – numero 11 – Settembre 2009
L’ultima frontiera della crisi di Malpensa ha la faccia triste di Case Nuove, frazione di Somma Lombardo. Ormai da tempo solo una cinquantina di abitanti ha scelto di rimanere a ridosso dell’aeroporto, in uno spicchio di terra tra i terminal 1 e 2. Gli altri, approfittando di due bandi pubblici, hanno preferito abbandonare le proprie abitazioni. E le villette con giardino o le cascine un po’ raffazzonate, così tipiche della provincia lombarda, si fanno assediare dalla modernità prefabbricata dei nuovi hotel. Il più recente, l’Holiday Inn, è stato inaugurato a marzo di quest’anno, un altro, il Crowne Plaza, stessa proprietà ma clientela più esclusiva, è più vecchio soltanto di tre anni. Al businessman che arriva la sera e riparte al mattino, o al professionista che partecipa a un congresso, l’hotel offre ogni comfort: sauna, palestra, salette per consigli di amministrazione, giardino per cocktail e ricevimenti. Fuori dalla finestra, la brughiera si sdraia, le galline vanno per l’aia e gli aerei prendono il volo.
All’angolo, come schiacciato tra i due alberghi “americani”, resiste l’Hotel ristorante Cervo, con il suo intonaco verde acqua pallido che ricorda le pensioni di quando gli italiani andavano in villeggiatura. Tre stelle, dodici dipendenti, trenta camere, a conduzione familiare. Il proprietario non ha più nemmeno la voglia di sfogarsi: «Non mi faccia parlare, davvero. Le grandi catene alberghiere stanno crescendo come funghi. Fanno il bello e il cattivo tempo. Noi abbiamo anche la cucina, tre autisti da pagare per il servizio navetta. Per ora teniamo duro, ma non so come andrà a finire…»
La strategia di moltiplicare gli hotel risale ai tempi del progetto Malpensa 2000, che undici anni fa trasformò lo scalo milanese in hub internazionale. La scelta, in prospettiva, aveva un senso perché contava sul fatto che da lì sarebbero transitati dai venti ai trenta milioni di passeggeri ogni anno. E chi va a pensare che un aeroporto possa andare male? Invece da quando, nel marzo 2008, la nuova Alitalia ha scelto di dirottare 170 voli giornalieri su Fiumicino, a Malpensa i passeggeri sono diminuiti del 48 per cento. Con l’effetto collaterale che nei primi mesi del 2009 l’occupazione camere è crollata al 40 per cento. Su dieci stanze, sei sono vuote.
Con Alitalia gli alberghi di Malpensa stavano tranquilli: i passeggeri rimasti a piedi all’ultimo minuto per guasti, ritardi e voli cancellati sono sempre stati tanti e tutti avevano bisogno di un letto. «Su un fatturato annuo di tre milioni di euro, un milione era garantito dai clienti Alitalia», spiega un ex dirigente di un albergo dell’area Malpensa. «Ma a un certo punto la società ha smesso di saldare tutti i conti in sospeso. Così ci abbiamo rimesso noi. All’hotel nel quale ho lavorato io, Alitalia doveva 45mila euro di pernottamenti non pagati. Ci sono alberghi che hanno perso anche 100mila euro».
Nel complesso, in poco più di un anno, si è dimezzata la domanda di posti letto ma si è quadruplicata l’offerta di camere. Anche perché le proprietà avevano già ottenuto i permessi per costruire e, spesso, anche i finanziamenti dalla Regione. Secondo i dati preoccupati di Federalberghi Varese, fino a pochi anni fa, nella fascia immediatamente attorno a Malpensa, c’erano cinque hotel a quattro stelle, adesso sono quasi una ventina. Nel 1999 l’intera area, con i suoi 23 alberghi, offriva un migliaio di posti letto. A fine 2008, le strutture sono salite a 32, con 3.376 posti letto. Tra poco più di un anno se ne prevedono altri 1.500.
Lungo il lato ovest del terminal 1, cinque gru schierate come un esercito annunciano che il prossimo colosso sarà lo Sheraton: 50mila metri cubi di vetro e acciaio, all’interno dell’aeroporto, in cui troveranno spazio 442 camere, terme, centri benessere e ristoranti. Una struttura ricettiva, non c’è dubbio.
Chi invece volesse godere di una vista più bucolica tra pochi mesi potrà prenotare al Marriott di Case Nuove, un palazzo di cinque piani che si sta mangiando un altro pezzo di campagna. Una volta finito, allungherà la sua ombra sulla chiesetta dedicata a Santa Margherita e sulla sede locale della Cgil-Camera del Lavoro, uno stanzino senza pretese ricavato in una vecchia casa di corte. “Proprietà MXP Immobiliare Srl, Permesso di costruire n° 100 del 17 dicembre 2007”, precisa la dichiarazione inizio lavori al varco del cantiere del futuro Marriott. Per il Comune di Somma Lombardo (dal 2005 amministrato da una giunta Lega Nord, Pdl, Udc guidata dall’architetto Guido Colombo) sono altri oneri di urbanizzazione che entrano in cassa, al di là della reale esigenza di posti letto.
Non possono farci nulla, se non prenderne atto, il proprietario e i 22 lavoratori a tempo indeterminato del vicino First Hotel, tra i primi a chiedere la cassa integrazione, a fine luglio, per evitare licenziamenti altrimenti inesorabili. «Noi siamo tra quelli fortunati», ammette Roberta Dini, dipendente e delegata sindacale. «Il titolare ha fatto una richiesta di cassa integrazione pari all’80 per cento della retribuzione ordinaria, che non è male. Gli altri hanno una cassa integrazione a zero ore, praticamente non lavorano più». Come il First, cinque alberghi (di cui tre di alta categoria) si sono aggrappati all’àncora degli ammortizzatori sociali: un fatto assolutamente inedito per il settore. «In poco più di un anno, abbiamo perso il 30 per cento di presenze e il 20-30 per cento di guadagno», spiega ancora Roberta Dini. «Ad aprile una camera da noi costava 200 euro, un grande albergo qui vicino la offriva a 79 euro. È chiaro che non possiamo competere. Le catene internazionali riescono a spuntare prezzi migliori su tutto: costo del lavaggio biancheria, forniture alimentari, detersivi. Noi possiamo solo puntare sulla qualità del servizio, ci prendiamo cura dell’ospite come se fosse uno di famiglia».
Ma qui irrompe un problema ulteriore: a Malpensa è cambiato il tipo di passeggero. Con la crisi economica, il rafforzamento dell’euro che ha indebolito il potere d’acquisto di americani e giapponesi, l’abbandono di Alitalia e l’arrivo delle compagnie low cost, la tradizionale “clientela business” è molto diminuita. «Se prima c’era chi spendeva 600 euro per un volo da New York, e magari era disposto a spenderne 125 per una camera da noi al First Hotel, adesso il turista che viaggia da Londra a 39 euro certamente tenderà a risparmiare sul pernottamento». Questo “turismo toccata e fuga” va a vantaggio degli alberghi con le spalle abbastanza robuste da potersi permettere offerte promozionali. L’Holiday Inn, per esempio, è l’unico a Case Nuove che possa vantare un’occupazione camere al 95 per cento. Il che significa letti da rifare, praticamente ogni giorno, in tutte le 126 stanze. Il marchio internazionale rassicura, con le sue camere standard, di quelle che atterri a Somma Lombardo ma potresti essere a Singapore o a Boston. Stessi quadri, stessi copriletti, stesso profumo per ambienti, addirittura.
«Una matrimoniale da noi prima costava 110 euro, adesso 90. Una singola che costava 80, ora la diamo a 70 euro». Andrea De Sensi lavora alla reception dell’Airport Motel di Tornavento di Lonate Pozzolo, a una quindicina di chilometri dalle piste. «Fino a un anno fa avevamo 21 dipendenti, ora siamo in 14. Non è stato licenziato nessuno, ma prima i colleghi che andavano via, o in pensione, venivano subito sostituiti. Ora no. Le cameriere ai piani erano dodici, adesso otto. E non ne servono di più perché il lavoro è calato». Un giorno c’è, quello dopo no. Un giorno hanno tempi morti, un altro devono fare gli straordinari per coprire tutti i turni. Con il risultato che le giornate di chi è rimasto sono sempre più flessibili. «È l’unico modo per andare avanti», dice il direttore Giorgio Pozzi. «Non lo nascondo, ci salviamo in parte anche grazie alla “clientela motel”, legata, diciamo così, al piacere. Ma per pareggiare i conti siamo sotto di un 20 per cento. Ormai i grandi numeri ce li siamo scordati».
Lucia Anile, segretaria generale della Filcams-Cgil Varese, ha per le mani dati anche peggiori: «Alcuni alberghi si sono ritrovati a proporre il 3×2, come al supermercato. C’è stato un calo mastodontico delle tariffe, in alcuni casi addirittura del 60 per cento, ma questo non ha richiamato nuovi turisti». A differenza dei negozi delle grandi firme dentro all’aeroporto (le famose “vetrine del made in Italy”), non ci sono alberghi che hanno chiuso, «ma il peggio non l’abbiamo ancora visto». Negli ultimi mesi, Lucia Anile ha seguito personalmente alcuni casi di cassa integrazione, con un centinaio di persone coinvolte. «E stiamo parlando di procedure ufficiali con trattative sindacali ufficiali. La reale dimensione del problema è impossibile da monitorare. Pensiamo a chi lavora in cucina o ai piani, per la pulizia camere. Come è noto, sono realtà molto spesso date in gestione a terzi. Questi lavoratori vengono lasciati a casa dall’oggi al domani e senza troppi clamori». Quello del commercio è già un settore poco sindacalizzato, in una provincia sempre meno sindacalizzata. «In genere – racconta Lucia Anile – si rivolgono a noi solo quando vengono “toccati” in prima persona, come se fossimo uno sportello per disbrigo pratiche. Ma poi al momento del voto scelgono tutt’altro».
Alle ultime elezioni, nei comuni attorno a Malpensa, la Lega ha raccolto in media dal 20 al 30 per cento dei voti. In pratica, non è stata scalfita dal proprio fallimento nella vicenda Malpensa. Come se fosse bastato alzare la voce in difesa dell’hub e dei posti di lavoro per dare l’impressione di averli salvati veramente. Finché è servito, la Lega (e il Pdl) hanno usato Malpensa come simbolo politico del Nord, poi, chiusa la campagna elettorale, hanno lasciato cadere tutto nel silenzio. Con i ministri che ancora addossavano le colpe al governo Prodi, romanocentrico, che li aveva preceduti. Eppure, al momento delle decisioni, era il centrodestra a occupare posti di responsabilità – e di potere – a ogni livello istituzionale.
Finora nessuno è riuscito a mettere attorno allo stesso tavolo istituzioni, sindacati e imprese. Non c’è ancora stato un confronto su come limitare i danni. In teoria, sono tutti d’accordo nel dire che non bisogna farsi trovare impreparati in vista dell’Expo 2015, che occorre puntare su fiere ed eventi annuali e valorizzare un turismo meno provinciale tra la “terra dei laghi” e Milano. Il presidente della Provincia di Varese, il leghista Dario Galli, nonostante tutto ci crede: «Dobbiamo ricordarci che qui non siamo né alle Dolomiti, né ai Caraibi. La peculiarità di questa zona è l’eccellenza industriale, che si sviluppa però in un luogo ambientalmente affascinante».
Il vero nodo da sciogliere resta il futuro dell’aeroporto: dall’Unione europea dipendono le decisioni sulla liberalizzazione degli slot, le “finestre” di tempo nelle quali un aereo può decollare o atterrare. Lufthansa Italia ne ha chiesti altri dieci per destinazioni a medio e lungo raggio. E ci sono le premesse per aprire altre “finestre” verso Oriente: Corea, Singapore, Qatar, Taiwan e Cina hanno recentemente rinegoziato accordi bilaterali con l’aeroporto. In ogni caso Malpensa non tornerà a essere hub internazionale «prima di quattro o cinque anni», secondo le previsioni di Giuseppe Bonomi, presidente, anche lui in quota Lega, di Sea, la società che gestisce lo scalo.
In una rianimazione ci devono credere per forza anche a Case Nuove: la Regione ha appena ceduto a Somma Lombardo le case abbandonate nel 2004 e nel 2008. Il Comune è diventato proprietario di 80mila metri quadrati di serramenti murati ed erbacce fuori controllo che aspettano di essere riconvertiti. Il sindaco vuole ospitare un istituto superiore aeronautico con un centro di formazione per tecnici assegnati alla manutenzione degli aerei. Dunque, una scuola e molti hotel per la Grande Malpensa che verrà. Se verrà. Intanto, come ha detto un albergatore, «rischiamo di diventare stagionali come in Liguria (ma con meno profitti), il che per la zona aeroportuale di una grande città europea è un’assurdità. E se per noi l’alta stagione è la settimana del Salone del mobile di Milano, stiamo freschi. Pure quello è in crisi…»