“Una sera con monsieur Albert” è il titolo del breve saggio di Walter Benjamin che, attraverso una conversazione col proprietario della sauna parigina, al numero 11 di rue de l’Arcade, ci introduce ai misteri della sessualità proustiana.
Sauna, ma al contempo luogo di piaceri proibiti, un paradiso per omofili che, alle cinque in punto del pomeriggio, apriva le sue porte, nel cuore di Parigi. Un luogo nel quale Proust si recava spesso in incognito, per dare sfogo alle sue perversioni, un luogo nel quale era conosciuto col sinistro appellativo di “Homme aux rats” (L’Uomo dei topi).
Un locale malfamato, frequentato principalmente da equivoci personaggi del demi-monde parigino, ma anche da scrittori come André Gide e Jean Cocteau, dove non erano infrequenti le irruzioni della polizia.
Qui Proust incontrava i giovanissimi efebi coi quali si intratteneva o invitava in un suo pied-à-terre, per abbandonarsi ad efferati riti feticistici e sadomasochisti. Uno, in particolare, suscitò l’orrore di Benjamin, ma anche dello scrittore Maurice Sachs, che ebbe modo di assistervi: “Il Supplizio dei topi”.
Protagonisti del “Gioco”, cui lo scrittore si limitava ad assistere, erano bellissimi giovani, completamente nudi, che dovevano tormentare con degli spilloni alcuni topi imprigionati in una gabbietta.
Attraverso tale rituale cruento, nel quale è evidente la “Pulsione di morte”, come rileva Sachs nelle pagine del “Journal” dedicate a Proust, egli perveniva al soddisfacimento di una sorta di erotismo anale, una forma di “Sadismo primario”, come lo definisce Freud, che deviando dall’ “oggetto” si ritorceva masochisticamente contro se stesso.
Nella letteratura psicanalitica non mancano esempi analoghi. Nel 1908, a Vienna, Sigmund Freud trattò il caso di un individuo anch’egli noto come “L’Uomo dei topi”, ma non vi è alcuna ragione che possa indurci a ritenere che si tratti del nostro.
E questo suo “Sadismo primario”, che attraverso il senso di colpa e la volontà di espiazione si convertiva in masochismo, egli praticava anche in forme ben più esplicite, attraverso le torture cui amava essere sottoposto, carponi o appeso a una corda, come si evince da una sua lettera del 1888 all’amico Daniel Halévy, nella quale lo scongiura di percuoterlo con delle verghe.
Nei bordelli per pederasti da lui assiduamente frequentati, poi, Proust era noto per la crudeltà delle umiliazioni cui amava farsi sottoporre, sempre da giovani bellissimi, ai quali chiedeva a volte di essere addirittura flagellato.
Come afferma a tale proposito il Benjamin: “Le condizioni che stavano alla base della sua opera sono malsane in sommo grado, perfino nell’amore il rapporto pervertito gli era più utile di quello normale”.
Un rapporto fra arte e vita strettissimo, dove l’una potrebbe fornire la chiave interpretativa dell’altra, in una prospettiva masochistica e auto punitiva che è quella rappresentata dal suo Charlus incatenato, personaggio ispirato alla figura del conte Robert de Montesquiou.
Il senso di colpa, la volontà di espiazione e soprattutto la pulsione di morte si evidenziano anche in un altro esempio emblematico, sempre fornito dal Benjamin.
Durante la conversazione con monsieur Albert questi gli riferì un episodio affatto singolare. Un pomeriggio, transitando in carrozza per una via di Parigi, Proust si trovò a passare dinnanzi a una macelleria, dove un giovane e bel garzone era intento a fare a pezzi della carne; morbosamente attratto da quella scena, ordinò al cocchiere di fermarsi e lì rimase per ore ad osservarla.
Un sadismo primario e una curiosità morbosa che secondo Benjamin rappresentano la miglior chiave interpretativa dell’opera proustiana, delle sue continue domande che rimandano ad altre domande, in una minuziosa e infinita analisi dei caratteri anche apparentemente più insignificanti della realtà. Una curiosità ossessiva e “sadica” che rimanda a quella “senza colpa” del bambino che usa la “domanda” come un’arma terribile.
Federico Bernardini
Illustrazione tratta da Google immagini