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Marco Sbarbati. Se piano piano ti entro in testa. Intervista al nuovo acquisto di Sugar.

Creato il 26 ottobre 2014 da Retrò Online Magazine @retr_online

Marco Sbarbati ha 28 anni, marchigiano e inizia a sognare una vita di musica nel 2005. Nel 2008 il suo percorso accademico lo porta a Bologna per frequentare i corsi del DAMS. Ed è nelle piazze della città turrita che Marco suona, suona e suona, diventando uno dei busker più famosi della città. E’ nella piazza Maggiore –dove, se non lì- che conosce Lucio Dalla, il quale lo ascolta, se ne affeziona, lo chiama Marcolino e inserisce una delle sue canzoni (“I don’t wanna start”) nelle musiche che accompagnano il film Ameriqua. E sarà poi il destino a lasciare incompiuta la promessa di Dalla a Marcolino “Io e te facciamo un disco”.

Marco non riesce a incidere con Lucio, però continua a suonare. E suona, suona, finché, un giorno, conosce Caterina Caselli che gli propone un contratto discografico con la Sugar. Che parolona contratto!  Marco firma e entra nella rosa della Sugar Music e, finalmente, nel 2014 esce l’omonimo EP MARCO SBARBATI che contiene cinque brani:

-Backward

-Se

-Nella mia testa

-My day off

-Ocean

Ci diamo appuntamento in piazza Duomo a Milano e fra il verde a chiazze dei tifosi del St. Etienne fa capolino un golfino viola di cashmere che contiene un ragazzo alto, capelli un po’ arruffati, faccia pulita e barbetta un po’ hipster (ma hipster nel senso buono…). Gentile ed educato mi saluta e ci dirigiamo insieme, ingenui,  verso un bar tranquillo e silenzioso, lontano dai petardi dei tifosi francesi, scoprendo nostro malgrado che il binomio bar-silenzio, nel centro di Milano, è una provinciale utopia.
L’intervista è già iniziata ma Marco ancora non lo sa . Gli anticipo che non voglio chiedergli roba del tipo “come nasce una musicista”, “come ti senti quando componi”, “sei fidanzato”,”canzone preferita”,”gruppo preferito”, “idoli, influenze”, gli dico che queste cose le lascio a Vanity Fair. Marco se la ride sotto i baffetti, sempre in modo discreto, e mi dice che va bene.

Mentre ci avviciniamo al nostro bar iniziamo scorgiamo un musicista di strada e attacchiamo a parlare di busking.

E’ l’unico vero feedback che puoi avere da delle persone vere. E’ utilissimo per chi vuole fare questo, musica, nella sua vita. Se suoni per quattro ore e nessuno si ferma, il messaggio è chiaro. Se invece, come succedeva a me, la tua busking session diventa un live con tanto di pubblico seduto il messaggio è altrettanto chiaro.- dice lui con tono fermo e sicuro, senza arroganza nel volto. Ed ha ragione. Nelle mie giornate bolognesi me li ricordo i pomeriggi ad ascoltare Marco in piazza Maggiore. E tantissimi ragazzi come me, seduti per terra ad ascoltare quel ragazzo gentile, dalla faccia pulita che nessuno sapeva chi fosse ma a nessuno realmente importava.

-Poi quando sei per strada puoi suonare quello che vuoi. Io ad esempio avevo un sacco di canzoni in inglese e praticamente nessun brano in italiano e quando suonavo in Piazza Maggiore andava bene così. Dopo aver conosciuto Lucio, dopo incontrato Caterina, ho capito che il “brano in italiano” era un problema da risolvere. Con Corrado abbiamo lavorato molto anche su questo- continua Marco, che ormai ha inteso anche lui che l’intervista è iniziata da un pezzo.

Corrado. Intendi Rustici?

Sì, Corrado Rustici! Lo seguo da molto tempo e il suo lavoro con Elisa ha significato molto per me. Quando me lo hanno proposto l’unica cosa che ho pensato è stato “Wow”. Con Corrado abbiamo lavorato molto e bene. Nei brani in inglese si sente bene il suo stampo, forse di più che in quelli in italiano.

Si sente. Quindi hanno voluto italianizzare i tuoi brani in inglese per democraticizzarli un po’? Il brit-sound è così invendibile in Italia?

Sicuramente per l’impresa discografica far uscire un artista con brani in lingua inglese è già un enorme rischio. Secondo me, è già un risultato molto buono e positivo quello che siamo riusciti ad ottenere.

Brevissimamente, cos’è che c’è di profondamente diverso nell’entrare a far parte di un’impresa discografica rispetto alla vita dell’indie.

Il lavoro di squadra. Hai una vera e propria squadra che ti orienta, ti guida nei meandri di un mercato vastissimo e spesso poco differenziato. Io avevo molta esperienza live, loro molta esperienza nell’industria discografica. Questo è stato fondamentale soprattutto per dare all’artista una visibilità maggiore che altrimenti non avrebbe. Poi, certo, oggi per avere un po’ di visibilità ci sono tanti modi: un video virale, una hit su soundcloud, partecipare ad un talent-show…

Mi parli di Talent-show senza diventare verde di rabbia. Interessante. Approfondiamo: il talent quindi cos’è? scorciatoia o strada alternativa?

Non ho niente contro i reality e io parto dal presupposto che ognuno fa quel che vuole. Entrare a far parte di quel tipo di ingranaggio vuol dire tirare in ballo tante cose e alcuni, con queste cose, non vogliono averci nulla a che fare. Si tratta, d’altronde, pur sempre di televisione: il talento viene spettacolarizzato. Ciò che mi fa un po’ paura è che a livello discografico, radiofonico soprattutto, i prodotti dei talent siano l’unica alternativa. Questo non è bello.

La tua paura è già realtà: il sistema del talent tira fuori dal suo magico cilindro almeno cinque nuove uscite all’anno e in radio passano quasi solo loro. Dal 2008, anno in cui G. Ferreri cantava Non ti scordar mai di me i talent hanno sempre più avuto una posizione egemonica sulle principali radio e canali tv. E chi se li scorda questi, se, fra le nuove uscite, passano in radio quasi solo loro in continuazione?

E’ vero. Più che altro è un peccato perché ci sarebbero tante altre cose da scoprire e sentire. Il fatto è che il mercato è difficile, c’è molta concorrenza e molta crisi. Le vendite dei dischi sono crollate e organizzare eventi e concerti sempre più costoso. Fare musica senza passare da un talent è effettivamente molto difficile, il meccanismo televisivo comunque ti assicura un numero minimo di introiti. Poi è una vera e propria fabbrica: sfornandone uno ogni anno riescono ad avere introiti simili ogni anno. Il format stesso è al centro del proprio meccanismo, non certo l’artista.

Quindi che differenza c’è allora fra uno che, come te, sceglie di fare un percorso carrieristico musicale “vero” e uno che sceglie  di essere un fenomeno televisivo (o ci prova)?

Dipende uno che vuole fare. Ognuno prende delle scelte che hanno delle ripercussioni, a volte forti, sul proprio percorso. Poi, ognuno fa i conti con la propria dignità artistica.

Che poi, questo meccanismo televisivo vuole deresponsabilizzarci un po’ tutti, specie negli ultimi trenta, quarant’anni. Intrattenere per distogliere le menti, piuttosto che intrattenere per far riflettere. Gli artisti, una volta, erano strumenti di comunicazione di valori e ideologie. Che è successo agli artisti di oggi? Che responsabilità sociale ti senti di avere in quanto artista?

Fare l’artista vuol dire sicuramente metterci la faccia. Io ci metto la faccia, quindi mi sento addosso una certa responsabilità. La musica come il cinema, sforna i suoi prodotti panettoni e i suoi prodotti d’autore. Poi appunto di artisti ce n’è pochi. Quello che secondo me l’artista dovrebbe fare è riflettere la società in cui vive, pochissimi ci riescono. Se ascolti un album dei Radiohead comprendi delle cose e percepisci dei ritratti sociali che non riscontri in altri album. Io non mi ci metto nemmeno al fianco di queste divinità dell’arte. E’ un altro piano di sensibilità artistica. Mi fa anche un po’ paura… cioè io non so se vorrei essere Thom Yorke, ecco!

Discografia Italiana in crisi nera. Problemi di marketing dell’impresa discografica che è sempre in ritardo rispetto alle novità statunitensi o inglesi. Vendita dei dischi in discesa vertiginosa. Decadimento dei contenuti musicali. La colpa è da imputare solo ai discografici o anche agli artisti, che hanno poggiato le loro grosse e grasse natiche su questo medioevo musicale, continuando ad arraffare quello che c’era, senza puntare al miglioramento?

Il discorso che tu citi è complesso. Bisognerebbe chiedersi “nasce prima l’uovo o la gallina?”. Farsi andare le bene le cose va bene fino ad un certo punto. Come dicevo prima dipende dal quello che uno vuole fare e per chi lo vuole fare. Come dici tu bisognerebbe guardare più agli stati dove la discografia non è in crisi come da noi. Bisogna trovare soluzioni creative per rileggere il mercato in chiave nuova. Sicuramente, circa la vendita dei dischi c’è una vera e propria rivoluzione culturale da fare. La fruizione della musica sta cambiando, stanno cambiando i formati, le piattaforme e il mercato è già stravolto. Ora comprare il CD è superfluo, è una chicca. Il CD originale lo compra il fan dei fan che, oltre delle canzoni, è innamorato dell’immagine dell’artista.

Con la Sugar avete sicuramente parlato dell’uscita del tuo album. Il sound del tuo EP tende a sonorità oltreoceano, l’abum confermerà questa scia? 

In realtà, credo che una buona parte del merito del sound di un album appartenga alle canzoni che lo compongono. Quello che è certo è che io cercherò di mantenere la mia unicità e vorrei di mantenere una coerenza di fondo.Io sto cercando di fare una scelta attenta e minuziosa, credo molto nell’attesa che spesso si traduce in qualità. Oggi c’è questa Snack-culture, è tutto fast, tutto usa-e-getta. Per questo vorrei riporre nell’attesa la promessa di fare una cosa un po’ più profonda, che resti. Preferisco quei brani che li ascolti, magari subito non ti piace, poi lo riascolti e piano piano ti entra dentro, e magari ti rimane nel cuore per dieci anni. Questo me lo insegnano ogni volta le canzoni di Damien Rice. Crescono, maturano, con me e dentro di me.

 

fotografia concessa dal Sig. Marco Sbarbati.

fotografia concessa dal Sig. Marco Sbarbati.


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