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È piena d'imprevisti, la storia! Ha anche lei le sue gobbe! Pensi di scriverla e ci finisci dentro tu, nel libro! Càpita!
"A un certo punto", a dire il vero, compare infatti una profezia, un'immagine di ciò che sarà la nostra morte. Ha l'aspetto disgustoso e maligno di un nano delle favole, di un gobbo, è l'incarnazione del male, e con lui dobbiamo fare i conti. Tutto il ferro della Torre Eiffel (2002) di Michele Mari è un romanzo surreale che comincia, quasi senza che ce ne si accorga, a tessere la sua rete di bitume colloso e un po' asfissiante intorno a un lettore smarrito e curioso che avanza per le strade (soprattutto) di Parigi negli anni '30. In 270 pagine, si fatica a defiinire una trama, il libro sembra apparso dal nulla nelle nostre mani e non si capisce quando e come potrà finire. Ci sono però delle storie: storie viste non dall'occhio che inventa, à rebours, una vicenda che ci porti all'origine, ma frammenti di un quadro dove siamo protagonisti di una stanca peregrinazione metropolitana.
Come i personaggi (e parliamo di Eric Auerbach, Marc Bloch, Walter Benjamin, Céline, Louis Renault e loro pari) avanzano per i passages e i sottorranei di una capitale visionaria e piena di messaggi, Michele Mari ci conduce divertito attraverso le sue carsiche intuizioni, intelligenti e sfrontate, le profezie post eventum che fanno della letteratura un universo a sé stante e, a dire il vero, piuttosto impegnativo. Tutto il ferro della Torre Eiffel non è un romanzo semplice, chiede molto al lettore in cambio della sua ebbra superfetazione visionaria e spesso ironica: è il divertissement di un uomo coltissimo ed è un gorgo senza fondo, dove forse scenderemo muti anche noi, come Cesare Pavese e la sua donna.
La parola, nella sua essenza comunicativa, perde un po' il potere demiurgico che ci si aspetta da un vero creatore per farsi invenzione a sua volta: il romanzo di Michele Mari è colmo di vaticini, di fati che si squadernano con potenza visionaria alle loro impotenti vittime, di discorsi che si sovrappongono e si palesano poco alla volta. Eppure, eppure va detto che Tutto il ferro della Torre Eiffel è anche un romanzo che straripa di cose, di oggetti. Prendendo a prestito la formula di certe forme d'arte, direi che siamo qui di fronte a una scrittura materica, a una trama verbale dalla quale si sollevano, spigolosi, nodi di feticci che altrimenti non avrebbero vita autonoma e che noi tocchiamo.
Per questo, mi sembra significativo che, dopo tanto dialogare, dopo richieste e risposte, nella sua parte finale questo grumo di profezie, di morti e di suicidii, prenda la forma di una sorta di parodistica rappresentazione sacra: il teatro, nella sua forma più studiatamente popolana del grand guignol, si fa carico di dar corpo a quel futuro che i personaggi rifiutano. Se i loro percorsi danteschi attraverso le bolge dei passages parigini - suddivisi per colpe e per schiere di condannati spesso ansiosi di parlare - sembrano interminabili, se la loro erotizzata accoglienza di bocche, vagine, apertura verso i recessi più secreti della vita sembrano soddisfare tutte le brame di questi uomini, è vero che la visione ha sempre il suo peso maggiore agli occhi di questi protagonisti e del lettore.
Figure secondarie della trama (ma secondarie con i nomi, tra gli altri, di Isadora Duncan, Marlene Dietrich, Mata Hari) si improvvisano in schermaglie grottesche, sardoniche e inquietanti. Il lettore finisce così con il ritrovarsi divertito e spaesato con una storia già invasa, tra i suoi personaggi, anche da figure raccolte con certosino e diabolico scrupolo da tutta una letteratura "gotica" che ha il suo apice nell'estro ineguagliabile del Fischerle di Elias Canetti. La fantasiosa blasfemia di queste intuizioni, che capovolge l'angelico nel satanico, dà il tocco più caratteristico a Tutto il ferro della Torre Eiffel, l'opera più esigente e ambiziosa che io abbia letto di Michele Mari.
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